IL VANGELO DELLA DOMENICA 4a di Pasqua

DOMENICA 4a DI PASQUA (ANNO B)

Il buon pastore, mosaico, Aquileia, pavimento della basilica, 1a metà del secolo IV .

L’arte

Le rappresentazioni del Cristo con l’agnello sulle spalle, diffusissime nell’età paleocristiana, dopo il Mille vanno progressivamente riducendo. Eppure Gesù nel Vangelo si presenta come “Signore” e “pastore”: Cristo Re e il Cristo “pastore” sono espressioni dell’unica missione salvifica: egli è il Signore, eppure sta in mezzo come “colui che serve”. È il Signore che giudica, ma anche quello che custodisce il suo gregge: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo, e io le farò riposare. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte”. L’arte cristiana delle origini era affezionata al tema delicato del pastore buono/bello che porta sulle spalle la pecora ritrovata: lo si ritrova negli affreschi delle catacombe romane, nei mosaici delle basiliche paleocristiane, in San Vitale a Ravenna e nel pavimento della basilica di Aquileia. Qui ritorna la citazione classica, quella dell’agnello portato dal pastore sulle spalle. Cristo, è un pastore amoroso, che vigila il suo gregge. Messo in luce da Giovanni Brusin negli anni ’50, il mosaico del Buon Pastore, insieme a quelli della Basilica, è uno dei più noti e meglio conservati pavimenti di Aquileia paleocristiana e rappresenta un pastore che tiene nella mano destra uno strumeno musicale, la siringa, e reca sulle spalle una pecora, mentre un’altra è ai suoi piedi. La siringa, nella mitologia classica era uno degli ordinari attributi di Pan, dio dei pastori e delle greggi, e di Orfeo, che, con il suono della sua siringa incantava e addomesticava le bestie. Questo particolare suggerisce un carattere importante dell’iconografia protocristiana: attribuire significati nuovi ad immagini preesistenti (la cultura romano – pagana). Il Buon Pastore di Aquileia l’immagine richiama il concetto cristiano di filantropia, l’amore-dono verso il prossimo. Il pastore bello è l’allegoria di Cristo umile, con la tunica corta e con una pecora sulle spalle: egli si prende cura con amore delle proprie pecore, ovvero i propri fedeli. Qui non c’è sfondo e manca ogni contestualizzazione storica. L’iconografia si stacca dal naturalismo, e si carica di motivi simbolici rappresentando i valori cristiani: i piedi del Pastore infatti non toccano terra, e manca lo sfondo prospettico di una dimensione temporale, non c’è azione, tutto è fermo. Il Pastore qui assume i tratti apollinei: sbarbato, e abbigliato semplicemente. Più tardi prevarrà il modello giudaico con una figura barbuta e riccamente vestita, spesso con una croce fra le mani al posto del vincastro.

Intro

Chi è veramente Gesù?  Niente come l’antitesi tra il Buon Pastore e il mercenario ce lo fa capire.  In cosa si differenziano radicalmente le due figure? Il ruolo, all’apparenza, sembra il medesimo. Ma li oppone e li divide la natura intima del rapporto con le pecore: la non appartenenza per il mercenario e l’appartenenza per il pastore. Se le pecore non ti appartengono te ne vai quando arriva il lupo e le lasci alla sua rapina. 
Se sei un mercenario non t’importa delle pecore, perché non le conosci: non le conosci “per esperienza”, non le conosci per amore: esse non sono tue. 
E da che cosa si vede se sono tue? Che la tua vita è con-divisa con loro. Gesù dà la vita per noi. È lui che ce la dà, tiene a precisare, nessuno gliela toglie. Lui, solo lui, ha il potere di offrire la sua vita e di riprenderla di nuovo. In questo sta la sua autorevolezza, nel potere dell’impotenza, a cui Dio nella morte si è volontariamente esposto. 
Gli uomini possono seguire Gesù solo in forza di questa sua autorevolezza. Per essa ne conoscono la voce, subiscono il fascino della sua Presenza, si dispongono alla sequela. Solo nel vivere questa appartenenza il cristiano diventa a sua volta autorevole, cioè capace di incontrare l’altro, di amarlo e di dar la sua vita per lui. L’appartenenza fa essere eco fragile e tenace della sua Presenza e suscita la nostalgia di poterlo incontrare. 

Il vangelo

Gv 10,11-18 Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Le parole


Conoscere, nel Vangelo, è amare intensamente – Il buon pastore conosce ed è conosciuto dalle pecore e dal Padre – e questo amore fa “buono”, anzi “bello”, il Pastore ed è il segreto della sua forza. È sempre l’amore il comandamento ricevuto dal Padre, che gli consente di “posare” la sua vita per le pecore e per il Padre, come si fa con le offerte sull’altare. E questo amore è così fecondo che raggiunge le pecore fino agli estremi confini.

Buon Pastore, bel pastore è Gesù perché si contrappone al mercenario che fugge davanti al lupo abbandonando le pecore. È la figura del nemico, del serpente antico. Il pastore buono, invece, offre la vita (la depone: gesto liturgico): egli è insieme sacerdote e vittima.

Pastore unico è Gesù come lo è la sua relazione con il Padre. Un rapporto di conoscenza e amore che passa anche nella relazione tra il pastore e le pecore; la relazione tra il Padre e il Figlio è richiesta come nuova condizione (il nuovo comandamento) dei discepoli tra loro. Il primo recinto delle pecore aveva l’ambito del popolo della Prima Alleanza. Ora gli altri ovili indicano la salvezza rivolta a tutta l’umanità; nella prospettiva finale di un solo gregge e un solo pastore.

Gesù dona liberamente la sua vita a Pasqua in suprema fedeltà al Padre. La relazione tra le pecore e il pastore è modellata su quella tra Gesù e il Padre, assolutamente incomparabile a quella con un mercenario. Tutta la storia della salvezza e la fede di Israele sono immagine e profezia della relazione che, nel Figlio, Dio stabilisce con l’umanità.

La similitudine, una specie di allegoria, mette in relazione ogni elemento raffigurato con uno che riguarda la realtà spirituale suggerita. In una parabola che parla di pecore e pastori, le pecore sono pecore e i pastori sono pastori. Se invece il racconto è allegoria le pecore e il pastore rappresentano qual cos’altro. Il pastore è il Messìa; le pecore sono i fedeli; il recinto indica l’atrio del Tempio di Gerusalemme. Il guardiano del recinto è il Levita che sta alla porta del tempio e che custodisce l’ingresso al Tempio e chi entra non approvato dal sacerdote-custode è un ladro e un brigante (si riferisce ai falsi messìa che abbondavano e istigavano le pecore a rivolta in nome della salvezza). Giovanni scrive questo Vangelo dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Romani; e la distruzione avvenne proprio perché alcuni, proclamandosi messìa, incitarono il popolo alla ribellione.

La teologia

At 4, 8-12; 1 Gv 3, 1-2; Gv 10, 11-18

«Il Buon Pastore dà la sua vita per le pecore» La parabola di Gesù che parla di un buon pastore, per quanto realisticamente raccontata, riceve tutta la sua forza immaginifica solo in lui, il Pastore assegnato da Dio agli uomini. Due contrassegni vengono nominati anzitutto il pastore che si prende a cuore il gregge fimo alla morte, quindi una conoscenza reciproca tra pastore e pecore, la cui profondità viene ancorata nel mistero più intimo di Dio. Della dedizione fino alla morte si parla al principio e alla fine del Vangelo. Questa dedizione sta in opposizione verso la fuga del «mercenario», che nel pericolo ha la buona idea che una vita umana è più preziosa di quella di un animale irragionevole. Questo argomento viene svigorito solo se al pastore le pecore stanno a cuore a tal punto da preferirle alla propria vita. Nell’ambito puramente naturale ciò è difficilmente concepibile, ma nell’ambito della grazia diventa la verità centrale, comprensibile solo con l’aiuto delle altre parole della parabola: il fatto che il pastore conosce le sue pecore e gli animali pure istintivamente lo conoscono è per Gesù soltanto il punto di paragone per tutt’altra conoscenza: «come il Padre conosce me e io conosco il Padre». Qui non si tratta affatto più di istinto, ma della più profonda reciproca conoscenza, come essa è nell’assoluto amore trinitario. E se Gesù applica questa suprema conoscenza d’amore all’intima reciprocità tra sé i e i suoi, egli solleva questa conoscenza molto in alto sopra quella suggerita dalla parabola. E così si fa anche chiaro che il primo aspetto della parabola (dono della vita per le pecore) e il secondo (conoscenza reciproca) si trovano non l’uno accanto all’altro ma l’uno dentro l’altro: poiché la conoscenza tra il Padre e il Figlio fa tutt’uno con la loro perfetta dedizione reciproca, e perciò anche la conoscenza tra Gesù e i suoi tutt’uno con la perfetta dedizione di Gesù ai suoi e per i suoi, cosa che inclusivamente (qui non espressa) implica l’unità di conoscenza e di dedizione della vita del cristiano per il suo Signore I due motivi vengono espressamente congiunti alla fine: il Padre ama il Figlio (anche) per la sua perfetta dedizione agli uomini – il che è a un tempo libertà del Figlio e «missione» del Padre – e questa totale dedizione agli uomini, essendo divino amore, è a un tempo il potere della vittoria sulla morte («il potere di prendere la vita di nuovo»).

2. «Nessun altro nome sotto il cielo». Pietro nella prima lettura dà al Signore tutto l’onore del miracolo da lui compiuto. Egli viene interrogato in nome di chi ha guarito il paralitico.  Risposta: di nessun altro se non della «pietra angolare (da voi) rigettata», perché unicamente in Gesù gli uomini possono trovare salvezza: spirituale e qui anche corporale. Non quasi che tutti i custodi delle pecore tranne Gesù siano solo «mercenari». Pietro è stato assegnato dal Signore stesso a pascere il suo gregge. Ma appunto: il gregge di Gesù, non di Pietro, così che ogni cosa efficace e adeguata viene in ultima analisi compiuta dall’«arcipastore soltanto» (1 Pt 5 4), anche se attraverso l’agire dei suoi collaboratori.

3. «Il mondo non ci conosce». La seconda lettura, letta in questo contesto, dice che il mondo non può intuire il rapporto tra Gesù e i suoi, ad esempio il rapporto di un papa o di un vescovo verso Cristo, suo Signore. Poiché il mondo non conosce Cristo, non può neppure vedere la Chiesa nella sua unità con Cristo, né misurare la sua distanza a suo riguardo. Ma la lettura va avanti ancora: neppure la Chiesa stessa, fin tanto che è pellegrina sulla terra, può intuire interamente questo rapporto, è così misterioso che si svelerà soltanto nella vita eterna: là il rapporto tra l’Uomo-Dio e la Chiesa verrà accolto nel rapporto trinitario, senza risolversi in esso.

Esegesi

Su uno sfondo tipico dell’ambiente palestinese, Gesù si rivela come il «pastore buono» (sarebbe meglio tradurre il «vero» pastore, cioè colui che realizza tutte le qualità del pastore, cf. Gv 10,11-18). L’immagine non ha nulla di debole o remissivo: a differenza del mercenario che fugge di fronte al pericolo, il pastore si erge contro i lupi e ha il coraggio di non fuggire. Il mercenario non ha alcun vero rapporto con le pecore, a lui importano il salario e la propria sicurezza; perciò nei momenti difficili non difende il gregge, ma lo abbandona e fugge per salvare se stesso. Egli è un pastore a cui le pecore non appartengono in proprio, e quindi non le ama (cf. vv. 12-13). Gesù invece si qualifica come pastore diverso e migliore perché le pecore sono proprio sue (cf. Gv 10,3.4.16), gli appartengono, le conosce (cf. vv. 14.16), si preoccupa di esse e quindi non le abbandona nel momento del pericolo. Fra Gesù pastore e i suoi discepoli corre una profonda relazione che si fonda sull’amore, non sul dovere.

Il gesto più specifico di Gesù (letteralmente il «pastore bello») è di offrire (letteralmente «depone», v. 11) la sua vita. La caratteristica del vero e unico pastore è il do no di sé, come la similitudine ripete più volte (vv. 11.15.17-18). L’evangelista dice che Gesù, senza alcuna necessità, senza alcuna costrizione che lo spinga a dare la vita per gli altri, offre la propria vita, pur potendone fare a meno. E che questo non sia pura velleità lo prova il fatto che egli ha il potere di riprenderla di nuovo, un’allusione neppure velata alla sua risurrezione. Il dono della vita viene fatto da Gesù nella più totale obbedienza all’ordine ricevuto dal Padre: «Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (v. 18). Gesù dona la sua vita in piena libertà e, al tempo stesso, per un comando del Padre. Strana nozione di libertà. Strana per il mondo, ma non per il discepolo. Gesù ha più volte detto che la sua libertà non sta nel prendere le distanze dal Padre, ma nel fare in tutto al sua volontà: libertà e obbedienza al Padre (che è sempre l’obbedienza al dono di sé) coincidono. Lo spazio vero della libertà è l’amore.

E come Gesù nella sua fedeltà e nella sua obbedienza al Padre trova il coraggio di dare la vita per il gregge, così i discepoli trovano nella fede in Gesù risorto il coraggio di annunciare con franchezza la verità e di opporsi alle minacce delle autorità.

Nella prima lettura (cf. At 4,8-12), tratta come sempre nel tempo pasquale dagli Atti degli apostoli, sembra che si voglia insistere sul comportamento di Pietro e di Giovanni, comportamento che trova la sua radice nello Spirito («pieni di Spirito Santo») e che contrasta con quello delle autorità: da una parte la franchezza, dall’altra la menzogna. Non è la folla questa volta ad essere sotto accusa, ma i capi, come si annota con cura: «I capi, gli anziani e gli scribi, il sommo sacerdote Anna, Caifa, Giovanni, Alessandro e quanti appartenevano a famiglie di sommi sacerdoti» (At 4,5-6). La franchezza degli apostoli li disorienta: «Rendendosi conto che erano persone semplici e senza istruzione, rimanevano stupiti» (At 4,13). Non sanno che la franchezza e la libertà di coscienza non vengono dall’istruzione, né dal ceto sociale, ma dalla fede e dallo Spirito. Franchezza (in greco «parresìa») è il termine che designava la libertà del cittadino nella democrazia greca: libertà di parola e di coscienza, coraggio di esprimere la propria convinzione e il proprio dissenso. La parola ricorre nel quarto capitolo ben tre volte (vv. 13.29.31): è senza dubbio uno dei motivi che l’autore degli Atti degli apostoli intende sottolineare.

Quando il potere viene meno al rispetto della verità e della libertà, si trasforma in una forza minacciosa, che tuttavia non riesce a nascondere la sua radicale debolezza. Ha dalla sua parte la forza, ma non le ragioni né i fatti: «Un segno evidente è avvenuto per opera loro; esso è diventato talmente noto […] che non possiamo negarlo» (At 4,16). Il potere gioca sulla paura (è tutta qui la sua forza), e quando incontra uomini liberi, che hanno vinto la paura, resta disorientato. Il potere «mondano» (quello che prima ha condannato Gesù, che poi ha condannato i discepoli e che sempre e dovunque condanna la libertà e la verità) ha bisogno di servi consenzienti, di uomini che hanno rinunciato – per paura o per calcolo – alla propria coscienza e alla fedeltà al Signore. Luca ha certamente raccontato questa storia per convincere i suoi lettori che la risurrezione di Gesù introduce nel mondo un cambiamento: non quello di far cessare le persecuzioni, che anzi sembrano insorgere più di prima, ma quello di suscitare uomini liberi e coraggiosi, «obbedienti più a Dio che agli uomini» (cf. At 4,19). La forza del Cristo risorto si manifesta anzitutto nelle coscienze. E che il cristiano sia chiamato ad affrontare coraggiosamente un contesto conflittuale e problematico, ne è pienamente convinto l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera (cf. 3,1-2). Nel bel mezzo dello stupore per il dono di Dio e nella gioiosa speranza della pienezza futura, chi scrive ricorda l’ostilità del mondo: «Per questo il mondo non ci conosce, perché non ha conosciuto lui» (v. 1).

Una breve annotazione (posta qui a modo di semplice constatazione, quasi un dato scontato), sembra richiamare le parole della preghiera sacerdotale di Gesù quando ribadisce il motivo dell’odio del mondo verso i discepoli (cf. Gv 17,14) e afferma che il mondo non ha conosciuto il Padre (cf. Gv 17,25). Il mondo non riconosce il Cristo, né il Padre, né i discepoli, anzi, li odia. L’evangelista è convinto che questo rifiuto tradisca sempre un’ostinata e colpevole incredulità, un’incredulità che, pur di difendersi non esita a ricorrere alla menzogna, all’odio e alla violenza. Il gran regista di questo rifiuto è Satana, chiamato appunto «il principe di questo mondo» (Gv 16,11). Infine, il rifiuto sorge sempre sulla base di una sicurezza di sé e di una intolleranza per tutto ciò che non è «proprio» («Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo», Gv 15,19). Quest’ultima convinzione è ribadita anche nella lettera: «Essi [gli eretici] sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. Noi siamo da Dio: chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta» (l Gv 4,5-6). Vale a dire che il mondo si trova nelle tenebre (cioè nella menzogna e nella lontananza da Dio), e ci sta bene: per questo rifiuta la luce e chiunque la testimoni. Nulla di comune fra i figli di Dio e il mondo, dove per mondo non si intendono gli uomini (che sono sempre da amare e da cercare), ma le loro idolatrie, le loro strutture di potenza, le loro ideologie. Chi è nato da Dio è all’opposto del mondo, perché i suoi valori sono altrove. Naturalmente nella lettera si coglie molto bene che questa netta opposizione tra il discepolo e il mondo non è un dato scontato (al contrario è molto facile che il discepolo ceda alla tentazione di rappacificarsi con il mondo), ma un compito, un imperativo: «Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui» ( 1 Gv 2,15) .

I Padri

1. Il buon pastore e il mercenario

Avete udito, fratelli carissimi, dalla lettura evangelica odierna, un ammaestramento per voi e un pericolo per me. Infatti colui che è buono non per un dono aggiuntivo, ma per sua stessa natura, dice: “Io sono il buon pastore” (Gv 10,11). Poi, subito evidenzia l’elemento costitutivo della sua bontà, per far sì che noi possiamo imitarlo, ed aggiunge: “Il buon pastore dà la vita per le sue pecore (ibid.)”. Inoltre, egli fece quel che insegnò, e mostrò con l’esempio quanto comandava. Il buon pastore dette la sua vita per le pecore del suo gregge, cambiando il suo corpo e il suo sangue nel nostro Sacramento, per sfamare con il cibo della sua carne coloro che aveva redento. In tal modo ci viene indicata la via del disprezzo della morte, perchè possiamo seguirla; ci viene proposto un modello da imitare. Anzitutto noi pastori di anime dobbiamo dare i nostri beni per le pecore del Signore; poi, se si rende necessario, per esse dobbiamo affrontare la morte. Dal dono delle cose esteriori che poi è il meno si arriva al dono della vita, che è il massimo tra tutti i doni. E siccome l’anima che ci fa dei viventi è incommensurabilmente più preziosa delle cose terrene in nostro possesso, chi non dà per le pecore del Signore i beni esteriori, come farà a dare per loro la propria anima? Eppure quanti sono coloro che per l’attaccamento ai beni del mondo si alienano il diritto di essere chiamati pastori! Di costoro, la divina Parola dice: “Il mercenario, e chi non è pastore, a cui non appartengono le pecore, quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge ” (Gv 10,12).

Non pastore, bensì mercenario è detto chi pasce le pecore del Signore animato non dall’amore sincero, ma dalla bramosia della ricompensa materiale. Mercenario è chi esercita l’ufficio di pastore, ma, invece di cercare il bene delle anime, ricerca i propri agi, il guadagno terreno, gli onori delle dignità ecclesiastiche e si pavoneggia alle riverenze degli uomini. Ecco i compensi del mercenario! Egli trova quaggiù la ricompensa che va cercando per il suo lavoro di pastore di anime, ma alla fine sarà escluso dalla eredità del gregge. Finchè non si presenta un’occasione straordinaria, non è possibile distinguere il buon pastore dal mercenario. In tempo ordinario, pastore e mercenario custodiscono il gregge nell’identico modo. E’ quando sopraggiunge il lupo che si svela la interiore disposizione con la quale ciascuno dei due stava a guardia del gregge. Il lupo cala sul gregge ogni qualvolta un ingiusto o un rapitore affligge gli umili e fedeli servi del Signore. Allora, colui che appariva pastore, senza esserlo, lascia le pecore e fugge, per paura del pericolo che gli incombe e non si arrischia a resistere all’ingiustizia. Dire che fugge non vuol dire che egli cambia dimora, bensì che non dà il proprio aiuto. Fugge, perché pur vedendo l’ingiustizia, tace; fugge, perchè si nasconde dietro il silenzio. Di tali pseudo-pastori, il profeta Ezechiele dice: “Non siete saliti sulle brecce, e non avete costruito alcun baluardo in difesa degli israeliti, perchè potessero resistere al combattimento nel giorno del Signore” (Ez 13,5).

Salire sulle brecce significa resistere con parola franca e coraggiosa a tutti i potenti che agiscono male. In più, resistiamo al combattimento nel giorno del Signore e ricostruiamo le mura della casa d’Israele, se difendiamo i fedeli innocenti, con l’autorità della giustizia, contro l’ingiustizia dei malvagi. Per evitare di far questo, il mercenario scappa al sopraggiungere del lupo.

C’è però un altro lupo che, senza desistere, ogni giorno, dilania non i corpi, bensì le anime. E’ lo spirito maligno che si aggira attorno ai recinti in cui stanno le pecore e cerca di ucciderle. Di questo lupo, il Signore, subito dopo, aggiunge: “Il lupo rapisce e disperde le pecore” (Gv 10,12). Viene il lupo e il mercenario scappa. Come dire: Lo spirito maligno dilania le anime con le sue tentazioni, mentre colui che riveste il ruolo di pastore non sente premura e sollecitudine. Le anime si perdono e il pastore si gongola nei suoi guadagni terreni.

Il lupo rapisce e disperde il gregge, quando attrae qualcuno alla lussuria, accende un altro d’avarizia, fa insuperbire un terzo infiamma d’ira un quarto; pungola questo con l’invidia, inganna quell’altro con la falsità. Il lupo, insomma, disperde le pecore, allorché il diavolo uccide con le tentazioni il popolo fedele.

Ma, contro tutte queste cose, il mercenario non s’accende minimamente di zelo, non si risveglia in lui alcun fervore d’amore: mentre è alla ricerca soltanto dei propri vantaggi esteriori, all’interno sopporta con negligenza tutti i danni spirituali del gregge. Per questo, il Maestro divino aggiunge: “Il mercenario fugge proprio perchè mercenario e non gli importa nulla delle pecore” (Gv 10,13). L’unica causa della fuga del mercenario è che egli è appunto un mercenario. Come dire: Non può stare al pericolo insieme alle pecore, chi ricopre il suo ufficio non per amore alle pecore, ma per desiderio di guadagni terreni. Il mercenario che accetta gli onori e si gongola nei propri lucri terreni, paventa di esporsi al rischio e di sfidare il pericolo, perchè corre l’alea di perdere ciò che più ama. Ma, dopo aver denunciato le colpe del falso pastore, il Signore ci prospetta ancora il modello, quasi la forma in cui dobbiamo calarci. Afferma difatti: “Io sono il buon pastore”. Quindi, aggiunge: “Io conosco”, ovvero amo, “le mie pecore, e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14). Come se intendesse dire: Le anime che mi amano, mi obbediscono, perché chi non ama la verità è segno che non la conosce ancora.

Avendo udito, fratelli carissimi, il pericolo cui siamo esposti noi pastori di anime, sforzatevi di scoprire nelle parole del Signore i pericoli che del pari correte voi. Interrogatevi se siete davvero le sue pecore, chiedetevi se lo conoscete, se possedete la luce della verità. Dico possedere la luce della verità, non soltanto per fede, ma per amore; non soltanto perciò credendo, ma anche operando. Infatti, lo stesso evangelista Giovanni, autore del brano evangelico odierno, ci ammonisce che: “Colui che dice di conoscere Dio, e poi non osserva i suoi comandamenti è un bugiardo” (1Gv 2,4). Ecco perchè, nel brano letto, il Signore aggiunge: “Come il Padre conosce me, così io conosco il Padre, e do la mia vita per le mie pecore” (Gv 10,15). In altri termini: Da questo si dimostra chiaramente che io conosco il Padre e da lui sono conosciuto: dal fatto che do la mia vita per le mie pecore. Cioè: Dall’amore con cui mi voto alla morte per le mie pecore, si può intuire quanto grande sia l’amore che ho per il Padre.

Siccome però il Signore era venuto per la redenzione di tutti, non solo degli Ebrei, ma anche dei Gentili, la Scrittura prosegue: “Ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche quelle io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10,16).

Quando asseriva di voler condurre e chiamare anche altre pecore, il Signore prevedeva la nostra redenzione. Noi, in effetti, veniamo dal paganesimo. Il che, fratelli potete vedere realizzato ogni giorno; e questo potete verificare, dal momento che i pagani si sono riconciliati con Dio.

Egli fa di due greggi quasi un solo ovile, poiché unifica nella sua fede il popolo ebreo e quello pagano. E quanto attesta Paolo, che afferma: “Egli è la nostra pace; è colui che ha unito i due in un sol popolo” (Ef 2,14). Quando egli, da entrambe le nazioni, chiama i semplici alla vita eterna, conduce le pecore al proprio ovile.

(Gregorio Magno, Hom. in Ev., 14, 1-4)

2. Gesù, porta dell’ovile e pastore del gregge

Il Signore propone la parabola della porta dell’ovile e del buon pastore. Chi non entra nell’ovile attraverso la porta è un ladro e un bandito. Chi entra per la porta, è il pastore del gregge. Il Signore applica a se stesso la similitudine dicendo: “Io sono la porta e Io sono il buon pastore”.

Quanto alla similitudine della porta, mentre afferma d’esser lui la porta dell’ovile, parla anche di ladri e banditi e afferma: “Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi”. E la similitudine è introdotta con le parole: “Disse loro, dunque, di nuovo Gesù: – In verità, in verità vi dico”; e la solennità della formula introduttiva vuole evidentemente richiamare l’attenzione dei discepoli e sottolineare l’importanza di quanto il Maestro vuol dire.

“Io sono la porta”: L’ufficio della porta è quello d’immettere nella casa. E questo s’addice bene a Cristo, perché, chi vuol entrar nel mistero di Dio, bisogna che passi per lui (Sal 117,10): “Questa è la porta del Signore” – Cristo – “e i giusti entreranno in essa”. Precisa: “Porta del gregge”, perchè non solo i pastori sono immessi nella Chiesa presente e poi nella beatitudine eterna attraverso Cristo, ma tutto il gregge, com’è detto appresso: “Le mie pecore ascoltano la mia voce… e mi seguono, e io do loro la vita eterna”.

Poi, quando dice: “Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi”, dice chi siano i ladri e i banditi e quali ne sian le note.

Quanto alla identificazione dei ladri e dei banditi, bisogna evitar l’errore dei Manichei, i quali da queste parole presumono di ricavar la condanna di tutti i Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento. Ma l’interpretazione dei Manichei è falsa per tre motivi.

Prima di tutto perchè contrasta con le parole precedenti della stessa parabola. Infatti tutti questi venuti prima che son condannati come ladri e banditi son certamente quegli stessi li cui il Signore ha detto: “Chi non entra per la porta è ladro e bandito”. Non sono, dunque, ladri e banditi coloro che semplicemente son venuti “prima” di Cristo, ma coloro che non son passati “attraverso la porta”, che è Cristo. E’ chiaro, allora, che Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, entrarono attraverso la porta, che è Cristo, perchèproprio Cristo, che doveva venire, li mandava; lui, fatto uomo nel tempo, ma presente nell’eternità, come Verbo di Dio (Eb 13,8: “Gesù Cristo ieri e oggi e in tutti i secoli”). I Profeti poi furono mandati nel nome del Verbo e della Sapienza (Sap 7,27: “La Sapienza di Dio si diffonde attraverso i popoli nelle anime sante dei Profeti e li fa amici di Dio”). Perciò, a proposito dei Profeti, leggiamo continuamente «La Parola di Dio è giunta al Profeta», proprio perchè, attraverso la comunicazione del Verbo, i Profeti annunziarono la parola di Dio.

“Coloro che sono venuti”: Questo verbo sta a dire che il loro venire non dipendeva da una divina missione, ma era una loro presunzione, e di tali Geremia disse (Ger 22,21): “Io non li mandai, ma essi correvano”. Questi, certo, non erano messaggeri del Verbo di Dio (Ez 13,3: “Guai ai profeti sprovveduti, che seguono il loro stesso spirito e non vedono niente”). Ma questo non lo si può dire dei Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, perchè essi erano proprio figure e annunziatori di Cristo.

Ed è anche falsa l’interpretazione dei Manichei per la conseguenza che deriva dalle parole: Le pecore non diedero loro ascolto. Il segno, quindi, di riconoscimento dei ladri e banditi sta nel fatto che le pecore non li ascoltarono. Ma questo non lo si può dire così in generale dei Patriarchi e dei Profeti; i quali furono vere guide del popolo d’Israele e nella Scrittura sono biasimati coloro che non li ascoltarono (At 7,52: “Quale dei Profeti non hanno perseguitato i vostri padri?” e Mt 23,37: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i Profeti e tiri sassi a quelli che sono stati mandati a te!)”.

Bisogna dire dunque: “Tutti quelli che son venuti”, non attraverso me, senza divina ispirazione e mandato, e con l’intenzione di cercare non la gloria di Dio, ma la propria, questi sono ladri, in quanto si appropriano di un’autorità d’insegnamento che non gli spetta (Is 1,23: “I tuoi principi infedeli sono alleati di ladri)”; e “sono banditi”, perchè uccidono attraverso la loro malvagia dottrina Mt 21,13: “Voi ne avete fatto una spelonca di ladri”; e Os 6,9: “Compagno di ladri, che ammazzano coloro che passano per la strada)”. Ma “costoro”, cioè i ladri e banditi, “le pecore non li ascoltarono”, almeno in modo costante, perchè altrimenti non avrebbero fatto più parte del gregge di Cristo, perchè “non segue un forestiero e fugge da lui”.

“Io sono la porta; chi entra attraverso me, sarà salvo”.

Qui il Signore, prima di tutto, vuol dire che il diritto di uso della porta è suo e che fa parte del piano della salvezza. Il modo della salvezza è accennato nelle parole: “Potrà entrare e uscire”. La porta salva quelli che son dentro, trattenendoli dall’esporsi ai pericoli, che son fuori, e li salva, impedendo al nemico di entrare. E questo s’addice a Cristo, poichè in lui abbiamo protezione e salvezza; ed è questo ch’egli vuol dire con le parole: “Se uno entrerà attraverso me” nella Chiesa, “sarà salvo”. Aggiungi anche la condizionale, se persevererà (At 6,12: “Non è stato dato agli uomini nessun altro nome nel quale salvarsi”; e Rm 5,10: “Tanto più saremo salvi nella sua vita”).

Il modo della salvezza è significato con le parole: “Entrerà e uscirà e troverà pascoli”; ma queste parole possono essere spiegate in quattro modi.

Secondo il Crisostomo non significano altro che la sicurezza e la libertà di coloro che sono con Cristo. Infatti, colui che non entra per la porta, non è padrone di entrare e uscire quando vuole; lo è, invece, colui che entra per la porta. Dicendo, dunque: “entrerà e uscirà”, vuol significare che gli apostoli, in comunione con Cristo, entrano con sicurezza e hanno accesso ai fedeli, che sono nella Chiesa, e agli infedeli, che ne son fuori, poiché essi sono stati costituiti padroni del mondo e nessuno li può cacciare fuori (Nm 27,16: “Il Signore di tutti gli spiriti provveda per il popolo un uomo che possa entrare e uscire, perchè il popolo del Signore non sia come un gregge senza pastore”). “E troverà pascoli”, cioè la gioia nella conversione e anche nelle persecuzioni che gli capiterà di affrontare per il nome di Cristo (At 5,41: “Gli Apostoli uscivano dal sinedrio pieni di gioia, perché erano stati fatti degni di subir ignominia per il nome di Gesù”).

La seconda spiegazione è di sant’Agostino nel commento al Vangelo di Giovanni.

Chi fa il bene realizza un’armonia tra ciò ch’è dentro di lui e con ciò ch’è fuori di lui. Al di dentro dell’uomo c’è lo spirito, al di fuori c’è il corpo (2Cor 6,16: “Sebbene il nostro uomo esteriore si corrompa, l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno). Colui dunque, ch’è unito a Cristo, “entrerà” attraverso la contemplazione per custodire la sua coscienza (Sap 8,16: Entrando nella mia casa – la coscienza -, “mi riposerò con essa” -la Sapienza -); e “uscirà” fuori, per controllare il suo corpo con le opere buone (Sal 103,23: “Uscirà l’uomo per i suoi impegni e per il suo lavoro fino a sera”); “e troverà pascoli”, nella coscienza pura e devota (Sal 16,15: “Verrò al tuo cospetto, mi sazierò alla vista della tua gloria”) e anche nel lavoro (Sal 125,6: “Al ritorno verranno esultanti, portando i loro covoni”).

La terza interpretazione di san Gregorio.

“Entrerà” nella Chiesa, credendo (Sal 41,5: “Andrò dov’è una tenda meravigliosa”), il che vuol dire entrare nella Chiesa militante; “e uscirà”, cioè passerà dalla Chiesa militante alla Chiesa trionfante (Ct 3,11: “Uscite, figlie di Sion, e vedete il re Salomone col diadema di cui lo cinse sua madre il giorno delle nozze”); “e troverà pascoli” di dottrina e di grazia nella Chiesa militante (Sal 22,2: “Mi pose nel luogo del cibo”); e pascoli di gloria nella Chiesa trionfante (Ez 34,14: “Pascolerò le mie pecore in pascoli ubertosissimi”).

La quarta spiegazione è nel libro “De Spiritu et Anima”, che viene erroneamente attribuito ad Agostino; e ivi è detto che i santi “entreranno” per contemplare la divinità di Cristo e “usciranno” per ammirare la sua umanità; e nell’una e nell’altra “troveranno pascoli”, perchè nell’una e nell’altra gusteranno le gioie della contemplazione (Is 33,17: “Vedranno il re nel suo splendore”).

Si tratta poi del ladro. Il Signore prima dice quali sono le proprietà del ladro e poi afferma che egli ha le proprietà opposte a quelle del ladro: “Io son venuto, perchè abbiano la vita”. Dice, dunque, che quelli che non entrano per la porta – che è lui – sono ladri e banditi e la loro condizione è malvagia. Infatti, “il ladro non viene che per rubare”, per portar via ciò che non è suo, e questo avviene, quando eretici e scismatici tirano a sè coloro che appartengono a Cristo. Il ladro poi viene “per uccidere”, diffondendo una falsa dottrina o costumi perversi (Os 6,9: “Compagno di ladri che ammazzano sulla strada quelli che vengono da Sichem”). Il ladro viene ancora, in terzo luogo, per distruggere, avviando alla dannazione eterna le sue vittime (Ger 50,6: “Il mio popolo è diventato un gregge perduto”). Queste condizioni non son certo nel buon pastore.  “Io venni perchè abbiano la vita”. E pare che il Signore volesse dire: Costoro non son venuti attraverso me; se fossero venuti attraverso me, farebbero cose simili a quelle che faccio io, ma essi fanno tutto l’opposto; essi rubano, uccidono, distruggono. “Io son venuto perchè abbiano la vita” della giustizia, entrando nella Chiesa militante attraverso la fede (Eb 10,38; Rm 1,17: “Il giusto vive di fede”). Di questa fede, è detto in Gv 3,14: “Noi sappiamo che siamo stati trasferiti dalla morte alla vita, perchè amiamo i fratelli. E perchè l’abbiano più abbondantemente”; abbiano cioè la vita eterna all’uscita dal corpo; la vita eterna della quale appresso è detto (Gv 17,8) ch’essa consiste “nel conoscere te solo vero Dio”.

Che Cristo poi sia pastore è evidente dal fatto che, come il gregge è guidato e alimentato dal pastore, così i fedeli sono alimentati dalla dottrina e dal corpo e sangue di Cristo (1Pt 2,25: “Eravate pecore senza pastore, ma ora vi siete rivolti al pastore delle vostre anime”; e Is 40,11: “Pascolerà i suoi, come il pastore pascola il suo gregge”). Ma, per distinguersi dal ladro e dal cattivo pastore, aggiunge l’aggettivo “buono”. Buono perchè compie l’ufficio del pastore, come si chiama buon soldato colui che compie l’ufficio del soldato. Ma, poiché Cristo ha già detto che il pastore entra per la porta e che lui stesso è la porta, bisogna concludere ch’egli entra nell’ovile attraverso se stesso. Ed è proprio così, perchè egli manifesta se stesso e attraverso se stesso conosce il Padre. Noi, invece, entriamo attraverso lui, perchè attraverso lui otteniamo la gioia. Ma guarda che nessun altro è la porta, se non lui, perchè nessun altro è la luce vera; gli altri son luce riflessa. Lo stesso Battista non era lui la luce, ma uno che testimoniava per la luce. Ma di Cristo è detto: “Era la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,8). Perciò, nessuno presume di esser la porta; solo Cristo poté dir questo di sè; ma concesse anche ad altri di essere pastori: difatti, Pietro fu pastore, e tutti gli apostoli e tutti i buoni vescovi furono pastori (Ger 3,5: Vi darò dei pastori secondo il mio cuore). Sebbene però i capi della Chiesa sian tutti pastori, tuttavia egli dice al singolare: “Io sono il buon pastore”, per suggerire la virtù della carità. Nessuno infatti è pastore buono, se non diventa una sola cosa con Cristo, attraverso la carità, e si fa membro del vero pastore.

Ufficio del pastore è la carità; perciò dice: “Il pastore buono dà la vita per le sue pecore”. Bisogna sapere che c’è una differenza tra il pastore buono e il cattivo; il pastore buono guarda al vantaggio del gregge; il cattivo guarda al proprio vantaggio; e questa differenza è segnalata in Ez 34,2: “Guai ai pastori che pascono sè stessi. Ma non è il gregge che dovrebbe essere pascolato dal pastore”? Colui, dunque, che si serve del gregge, per pascolar se stesso, non è un pastore buono. E da questo deriva che il pastore cattivo, anche quello materiale, non vuole subire nessun danno per il suo gregge, perchè non si cura del bene del gregge, ma del proprio. Invece il pastore buono, anche quello materiale, si sobbarca a molte cose per il gregge, perchè ne vuole il bene; perciò, Giacobbe in Gen 31,40, disse: “Giorno e notte ero bruciato dal freddo e dal caldo”. Ma nel caso di pastori materiali, non si chiede che un buon pastore rischi la sua vita per la salvezza del gregge. Ma, poichè la salute spirituale del gregge è più importante della vita corporale del pastore, quando è in pericolo la salute eterna del gregge, il pastore spirituale deve affrontare anche la morte, per il suo gregge. Ed è questo che il Signore dice con le parole: “Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore”; è pronto a dar la vita sua temporale con responsabilità e amore. Due cose son necessarie: che le pecore gli appartengano e che le ami; la prima, senza la seconda, non basta. Di questa dottrina si fece modello Gesù Cristo. Leggi in 1Gv 3,16: Se Cristo ha offerto la sua vita per noi, dobbiamo anche noi offrire la nostra vita per i nostri fratelli.  (Tommaso d’Aquino, Ev. sec. Ioan., 10, 3, 1s.)

3. Il Padre ci ha affidati al suo Verbo, nostro divino Pedagogo

Gesù, Logos di Dio, pedagogo al quale Dio ci ha affidati come un padre affida i suoi bambini ad un vero maestro; e ci ha espressamente prescritto questo: “Questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo ” (Mt 17,5 e parr.).  Il divino Pedagogo è del tutto degno della nostra fiducia, poiché‚ ha ricevuto i tre ornamenti più belli: scienza, benevolenza e autorità. La scienza, perchè egli è la sapienza del Padre – “ogni sapienza viene dal Signore ed essa è presso di lui per sempre” (Sir 1,1) -; l’autorità, perchè egli è Dio e Creatore – “tutto fu fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste (Gv 1,3) -; la benevolenza, perché si è offerto da sè come vittima unica in nostro favore: “Il buon pastore dà la vita per le sue pecore” (Gv 10,11), e la dette, senza alcun dubbio. Ora la benevolenza altro non è se non volere il bene del prossimo, per sè stesso.

(Clemente di Alessandria, Il Pedagogo, XI, 97, 2-3)

4. Non ricerca di gloria o di potere, ma solo la volontà di Dio

La gloria in questo mondo, gloria vana, non darmi, o mio Maestro;

Non darmi la ricchezza effimera, né talenti d’oro;

Non un trono elevato, né potere sulle cose che passano!

Mettimi con gli umili, con i poveri e tra i miti,

Divenga anch’io umile e mite .

Quanto al mio ufficio, se non posso rivestirlo in modo utile,

così da piacerti e servirti,  Permetti che ne sia allontanato

e che abbia a piangere solo, o Maestro, i miei peccati. (…)

O dolce, buono e compassionevole Pastore,

Che salvi vuoi tutti i credenti in te,

Abbi pietà ed esaudisci la mia preghiera:

Non irritarti, e non distogliermi il tuo sguardo,

Insegnami a compiere il tuo volere,

Poiché non chiedo che si faccia la mi volontà,

Ma la tua, e che io possa servirti, o Misericordioso!

(Simeone Nuovo Teologo, Hymn., 17)

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A cura di Gino Prandina, fraternità dell’Hospitale e AxA associazioni Artisti per l’Arte Sacra Vicenza, digit: artesacravicenza.org – I commenti teologici sono tratti dai manoscritti di H.U.V.Balthasar e e M.v.Speryr.; esegegi di Bruno Maggioni.  © Copyright All rights reserved. Tutti i diritti riservati