VANGELO DELLA DOMENICA 6a di Pasqua (anno C)

William Congdon (1912-1998), Pentecoste 2, post 1962, olio su faesite (bozzetto), 4 cm x 4 cm
ambito statunitense dell’Action Painting, The William G. Congdon Foundation.

L’ARTE

William Congdon, pittore informale appartenente al filone dell’action painting  americana, a fine maggio 1962 lavorò intensamente sul soggetto della Pentecoste, di cui  sono documentate almeno sei versioni. La numero 2, qui riprodotta, è poco più che un  bozzetto. Tecnicamente il dipinto è giocato sul colore vermiglio stagliato sullo smalto nero bituminoso, ad imitazione del festoso effetto cromatico delle vetrate istoriate. La forza del  dipinto è legata a questo rosso brillante che fende il buio come una miracolosa epifania.  Il fuoco dello Spirito diffonde caldi riflessi colorati, come bagliori che irrompono, dividono, s’intrecciano con l’ombra delle stesse figure e si fanno spazio verso lo spettatore. Non è difficile cogliere nella composizione l’analogia con l’impianto delle classiche Piazze San  Marco degli anni ’50, o con le Vedute del Colosseo.  L’incisività del gesto pittorico guidò quella “frenetica urgenza” delle tumultuose e festose  “visioni interiori” del neo convertito. L’artista infatti non racconta ma “annuncia”, con i mezzi  artistici, un’esperienza da attraversare: è lo spazio della sua anima, tormentato “cenacolo”  della sua conversione, e l’artista sta “dentro” il suo stesso dipinto, catturato dalle identiche e  gagliarde folate del vento improvviso, raggiunto dal medesimo fuoco che lo colora e lo colma  dell’unico “Spirito”. È lui che si riscopre come “capolavoro di Dio”.  A differenza della grande tela intitolata Pentecoste numero 4, qui le figure degli  apostoli, sommariamente tracciate con l’incisione e con tocchi di colori vivaci, si  dispongono su due schiere – una a destra e l’altra a sinistra – facendo spazio al  movimento dello Spirito che avanza. Li riconosciamo ritti in piedi, statici nella postura eppure sottilmente percorsi da quella potenza che li ha strappati dal buio e che ora li “ricrea”:  nuovi, ciascuno con una precisa ed originale identità.  Congdon dipinge con la potenza e la gioia del convertito, e ora plasma le immagini coi colori  della tavolozza di Dio. È lo Spirito Santo che crea la comunità dei credenti e la guida sulle  strade del mondo. Congdon dà forma e colore a questa chiesa nascente, scaturigine d’una  festosa liturgia pasquale. Gli apostoli sono le colonne, i volti, informali ma eloquenti, i capitelli;  il fuoco dà forma alla volta; la scintilla di luce centrale segna il catino di un’abside, tutto rinvia a Cristo “vera Luce del mondo”, “donatore dello Spirito santo”. La Chiesa è “comunità” di  persone, rese “pietre vive” dal medesimo Spirito. Congdon ne celebra l’unità nella compattezza  solida degli apostoli; ne proclama l’originalità di ciascuno nel diversificarsi dei colori, missionari “in piedi” pronti a partire; ne attesta la chiamata, la via da seguire e l’orizzonte da raggiungere  in quello squarcio di luce che è Cristo e che, nel centro e dall’alto, li illumina e li guida. 

INTRO

Non è mai così necessario parlare d’amore come là dove non ce n’è. Ugualmente per la pace:  non si è mai parlato tanto di pace come oggi, e intanto si continua a fare la guerra in moltissimi  luoghi. Ma, proprio su questo punto, il Vangelo di Giovanni pone un’importante distinzione: c’è  una pace di Gesù e un’altra pace, data dal mondo. San Giovanni attira la nostra attenzione sul  fatto che noi non dobbiamo lasciarci accecare dalle parole, dobbiamo tenere conto soprattutto  dello spirito nel quale esse sono dette. Dio ci ha mandato lo Spirito Santo per insegnarci la sua  volontà. Il suo Spirito ci insegna anche a penetrare il senso delle parole. Possiamo allora  rivolgerci a lui quando siamo disorientati, quando ci sentiamo deboli, quando non sappiamo più  cosa fare. È un aiuto al quale possiamo ricorrere quando ci aspettano decisioni difficili da  prendere. Egli ci aiuta!

IL VANGELO

Gv 14,23-29 Lo Spirito Santo vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. 

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e  prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi  ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.  Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il  Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho  detto.  Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il  vostro cuore e non abbia timore.  Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado  al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché,  quando avverrà, voi crediate». 

LE PAROLE

La storia… non riusciamo a districarla. Tutti i fili s’ingarbugliano su di noi. Un bel dilemma: Gesù  se ne va e noi restiamo. Ognuno e ognuna però viene consegnato alla storia con una missione  sua particolare, quella che da gloria a Dio e salva l’umanità. Ed allora sta a ciascuno  comprenderla, condurla, con la sola provvista della sua promessa: la pace. La pace, quella di Gesù non è la pace del mondo. Non va confusa con la tranquillità, il benessere  raggiunto, l’isolamento nel proprio piccolo contesto per far quadrare tutto a nostro proprio ed  esclusivo favore. Quella Sua pace è pace altra. Sembrerebbe una pace destinata a sbriciolare  alcune certezze dell’animo umano, sempre pronto a portare l’acqua al proprio mulino, ad  ammassare ricchezze, a costruire muri – anche invisibili – pur non di lasciarsi toccare dai  problemi e dalle difficoltà altrui.

Timore: “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”. Non siamo lasciati al nostro  giudizio, troppo spesso opaco o miope, ma ci viene donato uno sguardo d’aquila che fora  l’apparenza e mira alla sostanza. Lo Spirito suggerirà. Non tutto in una volta come in un libretto  istruzioni ma nella coscienza mossa dal quotidiano, quello feriale, grigio e consueto. Lentamente  o per sprazzi inattesi, la pace si farà strada dentro di noi, aprirà quello squarcio diverso che  creerà l’ottica nuova e una gestualità tutta fraterna, tutta dedita.

Il tempo dell’attesa, disteso fra Gesù che ritorna al Padre e poi ritornerà a noi, diventa un  tempo provato nel crogiolo ma pur sempre di gioia contagiosa. La pace autentica lascerà il suo  segno di autentico amore, quello capace di sperimentare, nell’assenza, il flusso della gioia  perché, dice Gesù, ” il Padre è più grande di me”, e la Sua gioia e la Sua pace sono ormai  definitive. Siamo provvisti, attrezzati ad un’adesione degna del Suo dono, che non tradisca la  Sua aspettativa e tutti ci raccolga insieme.

LA TEOLOGIA (H.U. von Balthasar) 

At 15,1-2. 6. 2G-29, Ap 21,10-14. 22-23; Gv 14, 23-29

1. «Vi dò la mia pace». Nel Vangelo, che preannuncia di nuovo il prossimo addio di Gesù, egli  ricorda alla sua giovane Chiesa una parola: la pace. Ed espressamente quella che deriva da lui,  la sola vera e durevole, mentre una pace, come il mondo la dà, è al massimo un precario  armistizio o addirittura una guerra fredda. I discepoli posseggono l’archetipo della vera pace in  Dio stesso: colui che osserva il comandamento dell’amore di Gesù, costui viene amato dal Padre  divino. Il Padre viene col Figlio nel credente, e lo Spirito Santo gli spiega nel cuore ogni verità  che Gesù ha portato. Dio nella sua Trinità è la pace vera e indissolubile. Ad essa i discepoli  devono lasciar andare l’amato Signore con gioia, perché non esiste altra gioia che nell’amore  trinitario, e la si deve augurare a chiunque, anche se lo si deve lasciar partire. 2. «Perciò siamo uniti». La Chiesa dev’essere un luogo di pace nel mondo senza pace. Ma essa ha  nel suo interno da superare problemi, che dapprima suscitano tensioni e che solo sotto la guida  dello Spirito Santo, nella preghiera a lui e nell’ascolto di lui, possono venir risolte in pace. Il  problema forse più grave si poneva (come riferisce la prima lettura) alla Chiesa già nel tempo  apostolico: la pacifica convivenza tra il popolo eletto, che possedeva da millenni una rivelazione  di Dio, e i pagani che arrivavano adesso e che dalla loro tradizione non portavano niente. Qui  raggiungere una convivenza veramente pacifica esigeva da entrambe le parti rinunce, e le  lunghe consultazioni degli apostoli dovevano necessariamente condurre all’esigenza di queste rinunce: i pagani non avevano bisogno di seguire importanti costumi giudaici, come ad esempio  la circoncisione, dovevano tuttavia fare ai giudei alcune concessioni, per esempio nelle abitudini  alimentari e nei matrimoni tra parenti. Forse questi oggetti del compromesso risultano a noi oggi  molto strani, ma erano allora ardentemente attuali, e dobbiamo prendervi un esempio per  quello che abbiamo anche ora da rinunciare, affinché tra le varie tendenze nella Chiesa domini  non un puro armistizio, bensì un’autentica fede di Cristo. Mai un partito sarà perfettamente nel  giusto e l’altro perfettamente nell’ingiusto. All’interno della fede di Cristo ci si ascolterà a  vicenda, si rifletterà sulle ragioni della controparte, non si assolutizzeranno le proprie. Ciò può oggi come allora esigere vere rinunce, ma soltanto se le facciamo ci verrà donata la pace di  Cristo.  3. «I nomi delle dodici tribù… i nomi dei dodici apostoli». La forma della definitiva «città della  pace», della Gerusalemme celeste, conferma nella seconda lettura la pace da Dio donata tra il  Vecchio Testamento degli ebrei e il Nuovo Testamento dei cristiani, la chiusura della peggior  frattura, che dal tempo di Gesù ha diviso il popolo eletto. Mentre le porte recano il nome delle  dodici tribù d’Israele, sulle dodici pietre angolari sono disegnati i «dodici nomi degli apostoli  dell’Agnello», e il numero di coloro che stanno davanti al trono di Dio è di ventiquattro. Forse  questa frattura apertasi in occasione della venuta di Gesù si chiuderà del tutto soltanto alla fine  del tempo, ma a noi spetta di superarla quanto possibile già all’interno della storia. Anche se non  è attuabile una unità della fede, una unità dell’amore è sempre possibile.

ESEGESI (B.Maggioni)

Avvicinandosi l’ora del distacco, Gesù lascia ai suoi discepoli il suo testamento spirituale, dove  risaltano in particolare l’invito a osservare la sua parola, il dono dello Spirito e la promessa della  pace (cf. Gv 14,23-29). «Se uno mi ama, osserverà la mia parola» (v. 23). La parola di Gesù,  prima ancora di essere ricordata, deve essere osservata, cioè messa in pratica: la prova che si  ama veramente il Signore è l’obbedienza. Il verbo «amare» dice anche desiderio, affetto,  amicizia, appartenenza, ma qui viene sottolineato che non si può parlare di vero amore se  manca l’osservanza della Parola. «Lo Spirito Santo […] vi insegnerà ogni cosa» (v. 26) è un’affermazione che ha bisogno di essere  precisata. Lo Spirito è mandato dal Padre nel nome di Gesù e ricorda quanto Gesù ha già detto.  L’insegnamento dello Spirito è ancora l’insegnamento di Gesù, nessuna concorrenza. Compito  dello Spirito è insegnare e ricordare: si tratta sempre dell’insegnamento di Gesù, ma colto e  compreso nella sua pienezza («Vi insegnerà ogni cosa»). Non si tratta di aggiungere qualcosa  all’insegnamento di Gesù, quasi fosse incompleto; «Ogni cosa» significa la pienezza, la sua  radice, la sua ragione profonda. E anche la memoria, dono dello Spirito, non è ricordo ripetitivo,  ma ricordo che attualizza. Lo Spirito è che mantiene aperta la storia di Gesù rendendola protagonista  attuale e salvifica. Senza lo Spirito la storia di Gesù compresa la sua  risurrezione resta una vicenda chiusa nel passato, non un evento perennemente  contemporaneo. Lo Spirito è la continuità tra il tempo di Gesù e il tempo della chiesa, come conferma  chiaramente l’episodio raccontato dagli Atti degli Apostoli (cf. 15,1-2.22-29). Nell’assemblea di  Gerusalemme viene risolto uno dei problemi più difficili del cristianesimo primitivo: salvare la  libertà del Vangelo e insieme l’unità della chiesa. Tutto questo grazie all’opera dello Spirito: «è  parso bene, infatti, allo Spirito santo e a noi» (v. 28). Uno Spirito che non si presenta in modo  miracolistico, ma come una presenza normale, che agisce all’interno di un difficile e faticoso  dibattito, per salvaguardare tutti i valori in gioco. Per tornare al Vangelo di questa domenica, il testamento spirituale di Gesù assume un ultimo  volto, assolutamente essenziale, la promessa della pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (v. 27). La pace di Gesù è diversa da quella che dà il mondo perché è dono di Dio, non conquista  della buona volontà dell’uomo. Diversa perché va alla radice, là dove l’uomo decide la scelta  della menzogna o della verità. Diversa perché sa pagare il prezzo della verità: è la pace vissuta  dal Crocifisso. Diversa perché può essere persino nascosta nel suo contrario, cioè nella  persecuzione. Il Risorto invita dunque i suoi discepoli a confidare nelle sue promesse, a non rifugiarsi in un  passato nostalgico, ma ad attendere dal futuro al quale potrà provvedere solo il Padre – il più  grande di tutti – il compimento di ogni realtà del presente. Lo stesso sguardo proiettato in avanti si coglie nella pagina dell’Apocalisse (cf. 21,10-14.22-23)  che conclude il libro, ma anche l’intera Bibbia, con la speranza di un mondo in cui la forza della  presenza di Dio sta già operando. Un mondo degno dell’uomo non è un sogno svanito, anche se è  vero che il peccato sembra sempre sciupare ogni cosa. Non dunque la nostalgia di un paradiso  perduto per sempre, nemmeno solo un sogno, ma una certezza, ecco la conclusione a cui il  lettore dell’Apocalisse è condotto: il mondo nuovo è una realtà sicura, sicura come la promessa  di Dio. Per descrivere il mondo nuovo, che conosce nella fede non ancora per esperienza diretta,  l’Apocalisse ricoma sempre al linguaggio simbolico. Un angelo conduce Giovanni su un monte altissimo perché possa contemplare la città santa, la  Gerusalemme nuova che discende da Dio. La descrizione dell’architettura della città di Dio crea  l’impressione della compiutezza, della definitività e dell’armonia. Così il simbolismo del numero  dodici, il numero della pienezza (le dodici porte e i dodici basamenti) e il simbolismo del  quadrato («la città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza», v. 16).  Tutto è compiuto, armonico e simmetrico: non vi si può aggiungere né togliere nulla. È chiaro  che Giovanni non sta descrivendo il piano di una città, ma il volto della comunità umana salvata  e purificata da Dio. Sono cadute tutte le contraddizioni, la frammentarietà, le disarmonie, la  provvisorietà che ora caratterizzano la convivenza. In secondo luogo, l’autore accumula immagini che creano l’impressione dell’armonia, della  trasparenza e della preziosità: lo splendore della città è come quello delle gemme ed è tutta  costruita con oro e pietre preziose. Ma a differenza della città di Babilonia, che ostenta i suoi  gioielli pretendendo di circondarsi di una gloria propria, la nuova città splende della gloria di  Dio: la sua luminosità è un riflesso della presenza di Dio. Ed è proprio questo il tratto più importante, la nuova città è in comunione con Dio, una  comunione diretta, trasparente, senza più veli e mediazioni: <<In essa non vidi alcun tempio: il  Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (v. 22). Dio non è più incontrato  attraverso qualcosa, ma faccia a faccia, e questo è il grande sogno dell’uomo, l’ansia profonda di ogni sua ricerca. Al di là dell’intenso simbolismo di quest’ultima pagina dell’Apocalisse, un  insegnamento conclusivo del libro appare trasparente: è alla luce della parola di Dio, cioè  nell’ascolto e nella preghiera, nella fede che la comunità cristiana trova la lucidità necessaria  per riscoprire la certezza del mondo futuro. Senza l’aiuto della parola di Dio la lettura della  storia perde lucidità e si confonde con la lettura mondana, e la comunità credente finisce con l’assumere la stessa logica del mondo. Oppure smarrisce la speranza, vede il fallimento e non  scorge, nel profondo, il germe carico di promessa della novità di Dio. In sostanza è questo il  compito profetico a cui la comunità dell’Apocalisse è più volte invitata, un compito importante e  più che mai necessario. Occorre, in poche parole, prestare attenzione al disegno di Dio che si fa  strada attraverso gli avvenimenti, anche i più sconvolgenti e i più dolorosi. La comunità  credente è chiamata a discernere, a non lasciarsi distrarre o incantare dalle apparenze e dalle  spiegazioni che molti danno. Lo sguardo del profeta cristiano va alla radice delle cose (e qui  scorge il peccato, ma nello stesso tempo, anche la misericordia di Dio) e si proietta in avanti,  intravedendo nel futuro il mondo nuovo che Dio ha promesso.


I PADRI

1. La presenza dello Spirito  

Lo Spirito Santo stesso è amore. Perciò Giovanni dice: “Dio è amore” (1Gv 4,8). Chi con tutto il  cuore cerca Dio, ha già colui che ama. E nessuno potrebbe amare Dio, se non possedesse colui  che ama. Ma, ecco, se a uno di voi si domandasse se egli ami Dio, egli fiduciosamente e con  sicurezza risponderebbe di sí. Però a principio della lettura avete sentito che la Verità dice: “Se  uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23). La prova dell’amore è l`azione. Perciò  Giovanni nella sua epistola dice anche: “Chi dice di amar Dio, ma non ne osserva i precetti, è  bugiardo” (1Gv 4,20). Allora veramente amiamo Dio, quando restringiamo il nostro piacere a  norma dei suoi comandamenti. Infatti chi corre ancora dietro a piaceri illeciti, non può dire  d`amar Dio, alla cui volontà poi contraddice.  “E il Padre mio amerà lui, e verremo e metteremo casa presso di lui” (Gv 14,23). Pensate che  festa, fratelli carissimi; avere in casa Dio! Certo, se venisse a casa vostra un ricco o un amico  molto importante, voi vi affrettereste a pulir tutto, perché nulla ne turbi lo sguardo. Purifichi,  dunque, le macchie delle opere, chi prepara a Dio la casa nella sua anima. Ma guardate meglio  le parole: “Verremo e metteremo casa presso di lui”. In alcuni, cioè, Dio vi entra, ma non vi si  ferma, perché questi, attraverso la compunzione, fanno posto a Dio, ma, al momento della  tentazione, si dimenticano della loro compunzione, e tornano al peccato, come se non  l’avessero mai detestato. Invece colui che ama veramente Dio, ne osserva i comandamenti, e  Dio entra nel suo cuore e vi rimane, perché l`amor di Dio riempie talmente il suo cuore, che al  tempo della tentazione, non si muove. Questo, allora, ama davvero, poiché un piacere illecito  non ne cambia la mente. Tanto piú uno si allontana dall’amore celeste, quanto piú s`ingolfa nei  piaceri terrestri. Perciò è detto ancora: “Chi non mi ama, non osserva i miei comandamenti” (Gv  14,24). Rientrate in voi stessi, fratelli; esaminate se veramente amate Dio, ma non credete a voi  stessi, se non avete la prova delle azioni. Guardate se con la lingua, col pensiero, con le azioni  amate davvero il Creatore. L`amor di Dio non è mai ozioso. Se c`è, fa cose grandi; se non ci son  le opere, non c`è amore. “E le parole che avete udito, non son mie, ma del Padre che mi ha mandato” (Gv 14,24). Sapete,  fratelli, che chi parla è il Verbo del Padre, e perciò le parole che dice il Figlio, in realtà, son del  Padre, perché il Figlio è Verbo del Padre. “Ho detto queste cose, mentre ero presso di voi”; come  non starebbe presso di loro colui che, prima di salire al cielo, promette: “Sarò con voi fino alla  fine del mondo” (Mt 28,20)? Il Verbo incarnato rimane e se ne va; se ne va col corpo, rimane con  la divinità. Dice che sarebbe rimasto, perché sarebbe stato sempre presente col suo invisibile  potere, ma se ne sarebbe andato con la sua visibilità corporale.  “Lo Spirito Santo Paraclito, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà tutto e vi ricorderà  tutto quello che vi ho detto”(Gv 14,26). Sapete quasi tutti che la parola greca Paraclito, in latino  significa avvocato o consolatore. E lo chiama avvocato, perché interviene presso il Padre in  favore dei nostri delitti. Questo Spirito, che è una sola sostanza col Padre e con il Figlio,  intercede per i peccatori, ed è lui stesso che intercede perché coloro che lui stesso ha riempito  di sé, li muove a chiedere perdono. Perciò Paolo dice: “Lo stesso Spirito supplica per noi con  gemiti indescrivibili” (Rm 8,26). Ma chi prega è inferiore a colui che è pregato; e come può lo  Spirito pregare, se non è inferiore? Ma lo Spirito prega, perché spinge a pregare coloro che ha  ripieni. Il medesimo Spirito è chiamato consolatore, perché mentre dispone i peccatori alla  speranza del perdono, ne solleva l’animo dalla tristezza. Di questo Spirito poi giustamente si  dice: “V`insegnerà ogni cosa”, perché se lo Spirito non è vicino al cuore di chi ascolta, il discorso  di chi insegna, non ha effetto. Non attribuite al maestro ciò che comprendete, perché se non sta  dentro colui che insegna la lingua del maestro si agita a vuoto. Ecco voi sentite ugualmente la  voce di uno che parla, ma non percepite tutti ugualmente il senso di ciò che è detto. Se dunque  la parola è sempre la stessa, perché nei vostri cuori ve n’è una diversa intelligenza? Certo  perché c`è un maestro interiore il quale istruisce alcuni in modo speciale. E di questa istruzione  lo Spirito dice attraverso Giovanni: “Egli v`insegnerà tutto” (1Gv 2,27). La parola, quindi, non  istruisce, se non interviene lo Spirito. Ma perché diciamo queste cose a proposito dell`istruzione  data dagli uomini, quando lo stesso Creatore non istruisce gli uomini, se non attraverso lo  Spirito? Certo, Caino, prima di uccidere il fratello, sentí la voce di Dio (Gen 4,7). Ma perché, a  motivo delle sue colpe, sentì la voce, ma non ebbe l`unzione dello Spirito, udì la Parola di Dio,  ma non la osservò. Bisogna ancora domandarsi perché del medesimo Spirito si dice: “Vi suggerirà  tutto”, se il suggerire è cosa di un inferiore? Ma poiché per suggerire a volte intendiamo  somministrare, l`azione del suggerire è attribuita allo Spirito, non in quanto venga dal basso, ma  perché viene dal buio. “Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace”. Qui lascio li do. La lascio a  quelli che seguono, la do a quelli che arrivano. (Gregorio Magno, Hom., 30, 1)  

2. Il dono della pace  

“Io vi lascio, io vi do la mia pace” (Gv 14,27): egli andandosene ci lascia la pace, e la pace ci  darà tornando alla fine dei secoli. La pace ci lascia in questo mondo, e la pace sua ci darà nel  regno futuro. Ci lascia la pace, affinché noi, che restiamo qui, possiamo vincere i nostri nemici;  e la pace ci darà laddove potremo vivere senza temere gli assalti dei nemici. Ci lascia la pace, affinché ci amiamo a vicenda; ci darà la sua pace lassú, dove non ci sarà alcun motivo di  conflitto fra noi. Ci lascia la pace, affinché non giudichiamo a vicenda le nostre anime finché  siamo in questo mondo; e la sua pace ci darà quando egli scoprirà i piú segreti pensieri di  ciascuno, e ciascuno riceverà allora da Dio le lodi che gli spetteranno (cf. 1Cor 4,5). Ebbene, è  in lui e da lui che viene questa pace, sia quella che ci lascia per andare al Padre, sia quella che  ci darà quando ci condurrà dal Padre. Ma cos`è che ci ha lasciato andandosene da noi, se non se  stesso, che mai si allontanerà da noi? Egli stesso è infatti la nostra pace, egli che di due popoli  ne fece uno solo (cf. Ef 2,14). Egli è per noi la pace, sia quando crediamo che egli è, sia quando  lo vedremo qual è (cf. 1Gv 3,2). Se infatti egli non abbandona noi che peregriniamo in questo  mondo lontani da lui, che siamo prigionieri di questo corpo corruttibile che appesantisce l`anima  (cf. Sap 9,15), e che camminiamo verso di lui per mezzo della fede e non perché di lui abbiamo  la chiara visione (cf. 2Cor 5,6-7), quanto maggiormente ci ricolmerà di sé, quando alfine  perverremo a vederlo quale è? Ma perché, quando dice: «Vi lascio la pace», non dice: «la mia  pace», mentre aggiunge «mia» quando dice: «vi do la mia pace»? Forse che il possessivo «mia» si  deve intendere sottinteso, in modo che esso, che il Signore dice una volta sola, si possa riferire a  tutte e due le volte che egli pronunzia la parola «pace»? Oppure in questo dettaglio è nascosto  qualche significato misterioso, che si deve cercare, in modo che, bussando, ci venga aperto?  Forse ha voluto che per sua pace, si intendesse solo quella che egli ha in sé? Quanto alla pace  che egli ci ha lasciata in questo mondo, essa è piú nostra che sua. Egli, in se stesso, non ha alcun  motivo di contesa, poiché assolutamente non ha in sé alcun peccato, mentre noi avremo una  tale pace solo ora, finché diremo: “Rimetti a noi i nostri debiti” (Mt 6,12). Noi abbiamo quindi  una certa pace, quando, nel nostro intimo, troviamo gioia nell`obbedire alla legge di Dio: ma  questa pace non è piena, in quanto ci rendiamo conto che nelle nostre membra c`è un`altra  legge, che è opposta alla legge della nostra anima (cf. Rm 7,22-23). E questa pace regna tra noi  e in noi, quando crediamo all’amore reciproco e di questo amore ci amiamo l’un l’altro; ma  questa pace non è piena, perché non possiamo vedere l`uno nell`intimo dei pensieri dell`altro,  e perché ci formiamo un`opinione buona o cattiva di ciò che non è realmente in noi. Orbene,  questa pace, sebbene ci sia stata lasciata dal Signore, è veramente la nostra: se non fosse per  lui, non avremmo neppure questa pace, ma non è quella che egli ha. Se però tale la  conserveremo sino alla fine, quale l’abbiamo ricevuta, avremo quella pace che egli ha, e in cui  non avremo, tra noi e in noi, alcun motivo di contesa, e niente ci sarà nascosto all’uno e  all’altro di quanto sta ora celato nei nostri cuori. (Agostino, Comment. in Ioan., 77, 3 s.)  

3. La pace è la tranquillità dell`ordine  

Perciò, la pace del corpo è l’armonico concatenamento delle sue parti; la pace dell`anima  irrazionale è la quiete ben regolata dei suoi appetiti; la pace dell’anima razionale è l’accordo  ben ordinato di pensiero e azione; la pace dell’anima e del corpo è la vita e la sanità ben  ordinate dell’essere animato; la pace dell’uomo mortale con Dio è l’obbedienza ben ordinata  nella fede sotto la legge eterna; la pace degli uomini è la loro ordinata concordia; la pace della casa è la concordia unanime dei suoi abitanti nel comandamento e nell’obbedienza; la pace  della città è la concordia ben ordinata dei cittadini nell’obbedienza alle leggi; la pace della città  celeste è la comunità perfettamente ordinata e perfettamente armonica nel godimento di Dio e  nella mutua gioia in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell`ordine. L`ordine è la  disposizione di esseri diversi, che stabilisce a ciascuno il posto che gli conviene.  (Agostino, la Città di Dio, 19, 13)  

4. Lo Spirito Santo, Dono dl Dio alla Chiesa  

E` alla Chiesa che è stato dato il “Dono di Dio” (Gv 4,10), così come lo era stato il soffio per  l`opera modellata (cf. Gen 2,7), affinché tutte le membra possano avervi parte ed esserne  vivificate; è in essa che è stata deposta la comunione con Cristo, cioè lo Spirito Santo, caparra  dell`incorruttibilità (cf. Ef 1,14; 2Cor 1,22), conferma della nostra fede (cf.Col 2,7) e scala della  nostra ascensione a Dio (cf. Gen 28,12): infatti, come è detto, “nella Chiesa Dio ha posto gli uni  come apostoli gli altri come profeti, ed altri ancora come dottori” (1Cor 1,12) e tutto il resto  dell’opera dello Spirito (cf. 1Cor 12,11). Da questo Spirito sono dunque esclusi quanti, rifiutando  di accorrere alla Chiesa, si privano da se stessi della vita con le loro false dottrine e le loro  azioni riprovevoli. Infatti, là dove è la Chiesa, lí è del pari lo Spirito di Dio; e là dove è lo Spirito  di Dio, lí è anche la Chiesa e tutte le grazie. E lo Spirito è Verità (cf. Gv 5,6).  (Ireneo di Lione, Adv. haer., 3, 24)

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A cura di Gino Prandina, fraternità dell’Hospitale e AxA Artesacravicenza, sito: artesacravicenza.org

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