William Congdon (1912-1998), Pentecoste 2, post 1962, olio su faesite (bozzetto), 4 cm x 4 cm
ambito statunitense dell’Action Painting, The William G. Congdon Foundation.
L’ARTE
William Congdon, pittore informale appartenente al filone dell’action painting americana, a fine maggio 1962 lavorò intensamente sul soggetto della Pentecoste, di cui sono documentate almeno sei versioni. La numero 2, qui riprodotta, è poco più che un bozzetto. Tecnicamente il dipinto è giocato sul colore vermiglio stagliato sullo smalto nero bituminoso, ad imitazione del festoso effetto cromatico delle vetrate istoriate. La forza del dipinto è legata a questo rosso brillante che fende il buio come una miracolosa epifania. Il fuoco dello Spirito diffonde caldi riflessi colorati, come bagliori che irrompono, dividono, s’intrecciano con l’ombra delle stesse figure e si fanno spazio verso lo spettatore. Non è difficile cogliere nella composizione l’analogia con l’impianto delle classiche Piazze San Marco degli anni ’50, o con le Vedute del Colosseo. L’incisività del gesto pittorico guidò quella “frenetica urgenza” delle tumultuose e festose “visioni interiori” del neo convertito. L’artista infatti non racconta ma “annuncia”, con i mezzi artistici, un’esperienza da attraversare: è lo spazio della sua anima, tormentato “cenacolo” della sua conversione, e l’artista sta “dentro” il suo stesso dipinto, catturato dalle identiche e gagliarde folate del vento improvviso, raggiunto dal medesimo fuoco che lo colora e lo colma dell’unico “Spirito”. È lui che si riscopre come “capolavoro di Dio”. A differenza della grande tela intitolata Pentecoste numero 4, qui le figure degli apostoli, sommariamente tracciate con l’incisione e con tocchi di colori vivaci, si dispongono su due schiere – una a destra e l’altra a sinistra – facendo spazio al movimento dello Spirito che avanza. Li riconosciamo ritti in piedi, statici nella postura eppure sottilmente percorsi da quella potenza che li ha strappati dal buio e che ora li “ricrea”: nuovi, ciascuno con una precisa ed originale identità. Congdon dipinge con la potenza e la gioia del convertito, e ora plasma le immagini coi colori della tavolozza di Dio. È lo Spirito Santo che crea la comunità dei credenti e la guida sulle strade del mondo. Congdon dà forma e colore a questa chiesa nascente, scaturigine d’una festosa liturgia pasquale. Gli apostoli sono le colonne, i volti, informali ma eloquenti, i capitelli; il fuoco dà forma alla volta; la scintilla di luce centrale segna il catino di un’abside, tutto rinvia a Cristo “vera Luce del mondo”, “donatore dello Spirito santo”. La Chiesa è “comunità” di persone, rese “pietre vive” dal medesimo Spirito. Congdon ne celebra l’unità nella compattezza solida degli apostoli; ne proclama l’originalità di ciascuno nel diversificarsi dei colori, missionari “in piedi” pronti a partire; ne attesta la chiamata, la via da seguire e l’orizzonte da raggiungere in quello squarcio di luce che è Cristo e che, nel centro e dall’alto, li illumina e li guida.
INTRO
Non è mai così necessario parlare d’amore come là dove non ce n’è. Ugualmente per la pace: non si è mai parlato tanto di pace come oggi, e intanto si continua a fare la guerra in moltissimi luoghi. Ma, proprio su questo punto, il Vangelo di Giovanni pone un’importante distinzione: c’è una pace di Gesù e un’altra pace, data dal mondo. San Giovanni attira la nostra attenzione sul fatto che noi non dobbiamo lasciarci accecare dalle parole, dobbiamo tenere conto soprattutto dello spirito nel quale esse sono dette. Dio ci ha mandato lo Spirito Santo per insegnarci la sua volontà. Il suo Spirito ci insegna anche a penetrare il senso delle parole. Possiamo allora rivolgerci a lui quando siamo disorientati, quando ci sentiamo deboli, quando non sappiamo più cosa fare. È un aiuto al quale possiamo ricorrere quando ci aspettano decisioni difficili da prendere. Egli ci aiuta!
IL VANGELO
Gv 14,23-29 Lo Spirito Santo vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».
LE PAROLE
La storia… non riusciamo a districarla. Tutti i fili s’ingarbugliano su di noi. Un bel dilemma: Gesù se ne va e noi restiamo. Ognuno e ognuna però viene consegnato alla storia con una missione sua particolare, quella che da gloria a Dio e salva l’umanità. Ed allora sta a ciascuno comprenderla, condurla, con la sola provvista della sua promessa: la pace. La pace, quella di Gesù non è la pace del mondo. Non va confusa con la tranquillità, il benessere raggiunto, l’isolamento nel proprio piccolo contesto per far quadrare tutto a nostro proprio ed esclusivo favore. Quella Sua pace è pace altra. Sembrerebbe una pace destinata a sbriciolare alcune certezze dell’animo umano, sempre pronto a portare l’acqua al proprio mulino, ad ammassare ricchezze, a costruire muri – anche invisibili – pur non di lasciarsi toccare dai problemi e dalle difficoltà altrui.
Timore: “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”. Non siamo lasciati al nostro giudizio, troppo spesso opaco o miope, ma ci viene donato uno sguardo d’aquila che fora l’apparenza e mira alla sostanza. Lo Spirito suggerirà. Non tutto in una volta come in un libretto istruzioni ma nella coscienza mossa dal quotidiano, quello feriale, grigio e consueto. Lentamente o per sprazzi inattesi, la pace si farà strada dentro di noi, aprirà quello squarcio diverso che creerà l’ottica nuova e una gestualità tutta fraterna, tutta dedita.
Il tempo dell’attesa, disteso fra Gesù che ritorna al Padre e poi ritornerà a noi, diventa un tempo provato nel crogiolo ma pur sempre di gioia contagiosa. La pace autentica lascerà il suo segno di autentico amore, quello capace di sperimentare, nell’assenza, il flusso della gioia perché, dice Gesù, ” il Padre è più grande di me”, e la Sua gioia e la Sua pace sono ormai definitive. Siamo provvisti, attrezzati ad un’adesione degna del Suo dono, che non tradisca la Sua aspettativa e tutti ci raccolga insieme.
LA TEOLOGIA (H.U. von Balthasar)
At 15,1-2. 6. 2G-29, Ap 21,10-14. 22-23; Gv 14, 23-29
1. «Vi dò la mia pace». Nel Vangelo, che preannuncia di nuovo il prossimo addio di Gesù, egli ricorda alla sua giovane Chiesa una parola: la pace. Ed espressamente quella che deriva da lui, la sola vera e durevole, mentre una pace, come il mondo la dà, è al massimo un precario armistizio o addirittura una guerra fredda. I discepoli posseggono l’archetipo della vera pace in Dio stesso: colui che osserva il comandamento dell’amore di Gesù, costui viene amato dal Padre divino. Il Padre viene col Figlio nel credente, e lo Spirito Santo gli spiega nel cuore ogni verità che Gesù ha portato. Dio nella sua Trinità è la pace vera e indissolubile. Ad essa i discepoli devono lasciar andare l’amato Signore con gioia, perché non esiste altra gioia che nell’amore trinitario, e la si deve augurare a chiunque, anche se lo si deve lasciar partire. 2. «Perciò siamo uniti». La Chiesa dev’essere un luogo di pace nel mondo senza pace. Ma essa ha nel suo interno da superare problemi, che dapprima suscitano tensioni e che solo sotto la guida dello Spirito Santo, nella preghiera a lui e nell’ascolto di lui, possono venir risolte in pace. Il problema forse più grave si poneva (come riferisce la prima lettura) alla Chiesa già nel tempo apostolico: la pacifica convivenza tra il popolo eletto, che possedeva da millenni una rivelazione di Dio, e i pagani che arrivavano adesso e che dalla loro tradizione non portavano niente. Qui raggiungere una convivenza veramente pacifica esigeva da entrambe le parti rinunce, e le lunghe consultazioni degli apostoli dovevano necessariamente condurre all’esigenza di queste rinunce: i pagani non avevano bisogno di seguire importanti costumi giudaici, come ad esempio la circoncisione, dovevano tuttavia fare ai giudei alcune concessioni, per esempio nelle abitudini alimentari e nei matrimoni tra parenti. Forse questi oggetti del compromesso risultano a noi oggi molto strani, ma erano allora ardentemente attuali, e dobbiamo prendervi un esempio per quello che abbiamo anche ora da rinunciare, affinché tra le varie tendenze nella Chiesa domini non un puro armistizio, bensì un’autentica fede di Cristo. Mai un partito sarà perfettamente nel giusto e l’altro perfettamente nell’ingiusto. All’interno della fede di Cristo ci si ascolterà a vicenda, si rifletterà sulle ragioni della controparte, non si assolutizzeranno le proprie. Ciò può oggi come allora esigere vere rinunce, ma soltanto se le facciamo ci verrà donata la pace di Cristo. 3. «I nomi delle dodici tribù… i nomi dei dodici apostoli». La forma della definitiva «città della pace», della Gerusalemme celeste, conferma nella seconda lettura la pace da Dio donata tra il Vecchio Testamento degli ebrei e il Nuovo Testamento dei cristiani, la chiusura della peggior frattura, che dal tempo di Gesù ha diviso il popolo eletto. Mentre le porte recano il nome delle dodici tribù d’Israele, sulle dodici pietre angolari sono disegnati i «dodici nomi degli apostoli dell’Agnello», e il numero di coloro che stanno davanti al trono di Dio è di ventiquattro. Forse questa frattura apertasi in occasione della venuta di Gesù si chiuderà del tutto soltanto alla fine del tempo, ma a noi spetta di superarla quanto possibile già all’interno della storia. Anche se non è attuabile una unità della fede, una unità dell’amore è sempre possibile.
ESEGESI (B.Maggioni)
Avvicinandosi l’ora del distacco, Gesù lascia ai suoi discepoli il suo testamento spirituale, dove risaltano in particolare l’invito a osservare la sua parola, il dono dello Spirito e la promessa della pace (cf. Gv 14,23-29). «Se uno mi ama, osserverà la mia parola» (v. 23). La parola di Gesù, prima ancora di essere ricordata, deve essere osservata, cioè messa in pratica: la prova che si ama veramente il Signore è l’obbedienza. Il verbo «amare» dice anche desiderio, affetto, amicizia, appartenenza, ma qui viene sottolineato che non si può parlare di vero amore se manca l’osservanza della Parola. «Lo Spirito Santo […] vi insegnerà ogni cosa» (v. 26) è un’affermazione che ha bisogno di essere precisata. Lo Spirito è mandato dal Padre nel nome di Gesù e ricorda quanto Gesù ha già detto. L’insegnamento dello Spirito è ancora l’insegnamento di Gesù, nessuna concorrenza. Compito dello Spirito è insegnare e ricordare: si tratta sempre dell’insegnamento di Gesù, ma colto e compreso nella sua pienezza («Vi insegnerà ogni cosa»). Non si tratta di aggiungere qualcosa all’insegnamento di Gesù, quasi fosse incompleto; «Ogni cosa» significa la pienezza, la sua radice, la sua ragione profonda. E anche la memoria, dono dello Spirito, non è ricordo ripetitivo, ma ricordo che attualizza. Lo Spirito è che mantiene aperta la storia di Gesù rendendola protagonista attuale e salvifica. Senza lo Spirito la storia di Gesù compresa la sua risurrezione resta una vicenda chiusa nel passato, non un evento perennemente contemporaneo. Lo Spirito è la continuità tra il tempo di Gesù e il tempo della chiesa, come conferma chiaramente l’episodio raccontato dagli Atti degli Apostoli (cf. 15,1-2.22-29). Nell’assemblea di Gerusalemme viene risolto uno dei problemi più difficili del cristianesimo primitivo: salvare la libertà del Vangelo e insieme l’unità della chiesa. Tutto questo grazie all’opera dello Spirito: «è parso bene, infatti, allo Spirito santo e a noi» (v. 28). Uno Spirito che non si presenta in modo miracolistico, ma come una presenza normale, che agisce all’interno di un difficile e faticoso dibattito, per salvaguardare tutti i valori in gioco. Per tornare al Vangelo di questa domenica, il testamento spirituale di Gesù assume un ultimo volto, assolutamente essenziale, la promessa della pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (v. 27). La pace di Gesù è diversa da quella che dà il mondo perché è dono di Dio, non conquista della buona volontà dell’uomo. Diversa perché va alla radice, là dove l’uomo decide la scelta della menzogna o della verità. Diversa perché sa pagare il prezzo della verità: è la pace vissuta dal Crocifisso. Diversa perché può essere persino nascosta nel suo contrario, cioè nella persecuzione. Il Risorto invita dunque i suoi discepoli a confidare nelle sue promesse, a non rifugiarsi in un passato nostalgico, ma ad attendere dal futuro al quale potrà provvedere solo il Padre – il più grande di tutti – il compimento di ogni realtà del presente. Lo stesso sguardo proiettato in avanti si coglie nella pagina dell’Apocalisse (cf. 21,10-14.22-23) che conclude il libro, ma anche l’intera Bibbia, con la speranza di un mondo in cui la forza della presenza di Dio sta già operando. Un mondo degno dell’uomo non è un sogno svanito, anche se è vero che il peccato sembra sempre sciupare ogni cosa. Non dunque la nostalgia di un paradiso perduto per sempre, nemmeno solo un sogno, ma una certezza, ecco la conclusione a cui il lettore dell’Apocalisse è condotto: il mondo nuovo è una realtà sicura, sicura come la promessa di Dio. Per descrivere il mondo nuovo, che conosce nella fede non ancora per esperienza diretta, l’Apocalisse ricoma sempre al linguaggio simbolico. Un angelo conduce Giovanni su un monte altissimo perché possa contemplare la città santa, la Gerusalemme nuova che discende da Dio. La descrizione dell’architettura della città di Dio crea l’impressione della compiutezza, della definitività e dell’armonia. Così il simbolismo del numero dodici, il numero della pienezza (le dodici porte e i dodici basamenti) e il simbolismo del quadrato («la città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza», v. 16). Tutto è compiuto, armonico e simmetrico: non vi si può aggiungere né togliere nulla. È chiaro che Giovanni non sta descrivendo il piano di una città, ma il volto della comunità umana salvata e purificata da Dio. Sono cadute tutte le contraddizioni, la frammentarietà, le disarmonie, la provvisorietà che ora caratterizzano la convivenza. In secondo luogo, l’autore accumula immagini che creano l’impressione dell’armonia, della trasparenza e della preziosità: lo splendore della città è come quello delle gemme ed è tutta costruita con oro e pietre preziose. Ma a differenza della città di Babilonia, che ostenta i suoi gioielli pretendendo di circondarsi di una gloria propria, la nuova città splende della gloria di Dio: la sua luminosità è un riflesso della presenza di Dio. Ed è proprio questo il tratto più importante, la nuova città è in comunione con Dio, una comunione diretta, trasparente, senza più veli e mediazioni: <<In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (v. 22). Dio non è più incontrato attraverso qualcosa, ma faccia a faccia, e questo è il grande sogno dell’uomo, l’ansia profonda di ogni sua ricerca. Al di là dell’intenso simbolismo di quest’ultima pagina dell’Apocalisse, un insegnamento conclusivo del libro appare trasparente: è alla luce della parola di Dio, cioè nell’ascolto e nella preghiera, nella fede che la comunità cristiana trova la lucidità necessaria per riscoprire la certezza del mondo futuro. Senza l’aiuto della parola di Dio la lettura della storia perde lucidità e si confonde con la lettura mondana, e la comunità credente finisce con l’assumere la stessa logica del mondo. Oppure smarrisce la speranza, vede il fallimento e non scorge, nel profondo, il germe carico di promessa della novità di Dio. In sostanza è questo il compito profetico a cui la comunità dell’Apocalisse è più volte invitata, un compito importante e più che mai necessario. Occorre, in poche parole, prestare attenzione al disegno di Dio che si fa strada attraverso gli avvenimenti, anche i più sconvolgenti e i più dolorosi. La comunità credente è chiamata a discernere, a non lasciarsi distrarre o incantare dalle apparenze e dalle spiegazioni che molti danno. Lo sguardo del profeta cristiano va alla radice delle cose (e qui scorge il peccato, ma nello stesso tempo, anche la misericordia di Dio) e si proietta in avanti, intravedendo nel futuro il mondo nuovo che Dio ha promesso.
I PADRI
1. La presenza dello Spirito
Lo Spirito Santo stesso è amore. Perciò Giovanni dice: “Dio è amore” (1Gv 4,8). Chi con tutto il cuore cerca Dio, ha già colui che ama. E nessuno potrebbe amare Dio, se non possedesse colui che ama. Ma, ecco, se a uno di voi si domandasse se egli ami Dio, egli fiduciosamente e con sicurezza risponderebbe di sí. Però a principio della lettura avete sentito che la Verità dice: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23). La prova dell’amore è l`azione. Perciò Giovanni nella sua epistola dice anche: “Chi dice di amar Dio, ma non ne osserva i precetti, è bugiardo” (1Gv 4,20). Allora veramente amiamo Dio, quando restringiamo il nostro piacere a norma dei suoi comandamenti. Infatti chi corre ancora dietro a piaceri illeciti, non può dire d`amar Dio, alla cui volontà poi contraddice. “E il Padre mio amerà lui, e verremo e metteremo casa presso di lui” (Gv 14,23). Pensate che festa, fratelli carissimi; avere in casa Dio! Certo, se venisse a casa vostra un ricco o un amico molto importante, voi vi affrettereste a pulir tutto, perché nulla ne turbi lo sguardo. Purifichi, dunque, le macchie delle opere, chi prepara a Dio la casa nella sua anima. Ma guardate meglio le parole: “Verremo e metteremo casa presso di lui”. In alcuni, cioè, Dio vi entra, ma non vi si ferma, perché questi, attraverso la compunzione, fanno posto a Dio, ma, al momento della tentazione, si dimenticano della loro compunzione, e tornano al peccato, come se non l’avessero mai detestato. Invece colui che ama veramente Dio, ne osserva i comandamenti, e Dio entra nel suo cuore e vi rimane, perché l`amor di Dio riempie talmente il suo cuore, che al tempo della tentazione, non si muove. Questo, allora, ama davvero, poiché un piacere illecito non ne cambia la mente. Tanto piú uno si allontana dall’amore celeste, quanto piú s`ingolfa nei piaceri terrestri. Perciò è detto ancora: “Chi non mi ama, non osserva i miei comandamenti” (Gv 14,24). Rientrate in voi stessi, fratelli; esaminate se veramente amate Dio, ma non credete a voi stessi, se non avete la prova delle azioni. Guardate se con la lingua, col pensiero, con le azioni amate davvero il Creatore. L`amor di Dio non è mai ozioso. Se c`è, fa cose grandi; se non ci son le opere, non c`è amore. “E le parole che avete udito, non son mie, ma del Padre che mi ha mandato” (Gv 14,24). Sapete, fratelli, che chi parla è il Verbo del Padre, e perciò le parole che dice il Figlio, in realtà, son del Padre, perché il Figlio è Verbo del Padre. “Ho detto queste cose, mentre ero presso di voi”; come non starebbe presso di loro colui che, prima di salire al cielo, promette: “Sarò con voi fino alla fine del mondo” (Mt 28,20)? Il Verbo incarnato rimane e se ne va; se ne va col corpo, rimane con la divinità. Dice che sarebbe rimasto, perché sarebbe stato sempre presente col suo invisibile potere, ma se ne sarebbe andato con la sua visibilità corporale. “Lo Spirito Santo Paraclito, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà tutto e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto”(Gv 14,26). Sapete quasi tutti che la parola greca Paraclito, in latino significa avvocato o consolatore. E lo chiama avvocato, perché interviene presso il Padre in favore dei nostri delitti. Questo Spirito, che è una sola sostanza col Padre e con il Figlio, intercede per i peccatori, ed è lui stesso che intercede perché coloro che lui stesso ha riempito di sé, li muove a chiedere perdono. Perciò Paolo dice: “Lo stesso Spirito supplica per noi con gemiti indescrivibili” (Rm 8,26). Ma chi prega è inferiore a colui che è pregato; e come può lo Spirito pregare, se non è inferiore? Ma lo Spirito prega, perché spinge a pregare coloro che ha ripieni. Il medesimo Spirito è chiamato consolatore, perché mentre dispone i peccatori alla speranza del perdono, ne solleva l’animo dalla tristezza. Di questo Spirito poi giustamente si dice: “V`insegnerà ogni cosa”, perché se lo Spirito non è vicino al cuore di chi ascolta, il discorso di chi insegna, non ha effetto. Non attribuite al maestro ciò che comprendete, perché se non sta dentro colui che insegna la lingua del maestro si agita a vuoto. Ecco voi sentite ugualmente la voce di uno che parla, ma non percepite tutti ugualmente il senso di ciò che è detto. Se dunque la parola è sempre la stessa, perché nei vostri cuori ve n’è una diversa intelligenza? Certo perché c`è un maestro interiore il quale istruisce alcuni in modo speciale. E di questa istruzione lo Spirito dice attraverso Giovanni: “Egli v`insegnerà tutto” (1Gv 2,27). La parola, quindi, non istruisce, se non interviene lo Spirito. Ma perché diciamo queste cose a proposito dell`istruzione data dagli uomini, quando lo stesso Creatore non istruisce gli uomini, se non attraverso lo Spirito? Certo, Caino, prima di uccidere il fratello, sentí la voce di Dio (Gen 4,7). Ma perché, a motivo delle sue colpe, sentì la voce, ma non ebbe l`unzione dello Spirito, udì la Parola di Dio, ma non la osservò. Bisogna ancora domandarsi perché del medesimo Spirito si dice: “Vi suggerirà tutto”, se il suggerire è cosa di un inferiore? Ma poiché per suggerire a volte intendiamo somministrare, l`azione del suggerire è attribuita allo Spirito, non in quanto venga dal basso, ma perché viene dal buio. “Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace”. Qui lascio li do. La lascio a quelli che seguono, la do a quelli che arrivano. (Gregorio Magno, Hom., 30, 1)
2. Il dono della pace
“Io vi lascio, io vi do la mia pace” (Gv 14,27): egli andandosene ci lascia la pace, e la pace ci darà tornando alla fine dei secoli. La pace ci lascia in questo mondo, e la pace sua ci darà nel regno futuro. Ci lascia la pace, affinché noi, che restiamo qui, possiamo vincere i nostri nemici; e la pace ci darà laddove potremo vivere senza temere gli assalti dei nemici. Ci lascia la pace, affinché ci amiamo a vicenda; ci darà la sua pace lassú, dove non ci sarà alcun motivo di conflitto fra noi. Ci lascia la pace, affinché non giudichiamo a vicenda le nostre anime finché siamo in questo mondo; e la sua pace ci darà quando egli scoprirà i piú segreti pensieri di ciascuno, e ciascuno riceverà allora da Dio le lodi che gli spetteranno (cf. 1Cor 4,5). Ebbene, è in lui e da lui che viene questa pace, sia quella che ci lascia per andare al Padre, sia quella che ci darà quando ci condurrà dal Padre. Ma cos`è che ci ha lasciato andandosene da noi, se non se stesso, che mai si allontanerà da noi? Egli stesso è infatti la nostra pace, egli che di due popoli ne fece uno solo (cf. Ef 2,14). Egli è per noi la pace, sia quando crediamo che egli è, sia quando lo vedremo qual è (cf. 1Gv 3,2). Se infatti egli non abbandona noi che peregriniamo in questo mondo lontani da lui, che siamo prigionieri di questo corpo corruttibile che appesantisce l`anima (cf. Sap 9,15), e che camminiamo verso di lui per mezzo della fede e non perché di lui abbiamo la chiara visione (cf. 2Cor 5,6-7), quanto maggiormente ci ricolmerà di sé, quando alfine perverremo a vederlo quale è? Ma perché, quando dice: «Vi lascio la pace», non dice: «la mia pace», mentre aggiunge «mia» quando dice: «vi do la mia pace»? Forse che il possessivo «mia» si deve intendere sottinteso, in modo che esso, che il Signore dice una volta sola, si possa riferire a tutte e due le volte che egli pronunzia la parola «pace»? Oppure in questo dettaglio è nascosto qualche significato misterioso, che si deve cercare, in modo che, bussando, ci venga aperto? Forse ha voluto che per sua pace, si intendesse solo quella che egli ha in sé? Quanto alla pace che egli ci ha lasciata in questo mondo, essa è piú nostra che sua. Egli, in se stesso, non ha alcun motivo di contesa, poiché assolutamente non ha in sé alcun peccato, mentre noi avremo una tale pace solo ora, finché diremo: “Rimetti a noi i nostri debiti” (Mt 6,12). Noi abbiamo quindi una certa pace, quando, nel nostro intimo, troviamo gioia nell`obbedire alla legge di Dio: ma questa pace non è piena, in quanto ci rendiamo conto che nelle nostre membra c`è un`altra legge, che è opposta alla legge della nostra anima (cf. Rm 7,22-23). E questa pace regna tra noi e in noi, quando crediamo all’amore reciproco e di questo amore ci amiamo l’un l’altro; ma questa pace non è piena, perché non possiamo vedere l`uno nell`intimo dei pensieri dell`altro, e perché ci formiamo un`opinione buona o cattiva di ciò che non è realmente in noi. Orbene, questa pace, sebbene ci sia stata lasciata dal Signore, è veramente la nostra: se non fosse per lui, non avremmo neppure questa pace, ma non è quella che egli ha. Se però tale la conserveremo sino alla fine, quale l’abbiamo ricevuta, avremo quella pace che egli ha, e in cui non avremo, tra noi e in noi, alcun motivo di contesa, e niente ci sarà nascosto all’uno e all’altro di quanto sta ora celato nei nostri cuori. (Agostino, Comment. in Ioan., 77, 3 s.)
3. La pace è la tranquillità dell`ordine
Perciò, la pace del corpo è l’armonico concatenamento delle sue parti; la pace dell`anima irrazionale è la quiete ben regolata dei suoi appetiti; la pace dell’anima razionale è l’accordo ben ordinato di pensiero e azione; la pace dell’anima e del corpo è la vita e la sanità ben ordinate dell’essere animato; la pace dell’uomo mortale con Dio è l’obbedienza ben ordinata nella fede sotto la legge eterna; la pace degli uomini è la loro ordinata concordia; la pace della casa è la concordia unanime dei suoi abitanti nel comandamento e nell’obbedienza; la pace della città è la concordia ben ordinata dei cittadini nell’obbedienza alle leggi; la pace della città celeste è la comunità perfettamente ordinata e perfettamente armonica nel godimento di Dio e nella mutua gioia in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell`ordine. L`ordine è la disposizione di esseri diversi, che stabilisce a ciascuno il posto che gli conviene. (Agostino, la Città di Dio, 19, 13)
4. Lo Spirito Santo, Dono dl Dio alla Chiesa
E` alla Chiesa che è stato dato il “Dono di Dio” (Gv 4,10), così come lo era stato il soffio per l`opera modellata (cf. Gen 2,7), affinché tutte le membra possano avervi parte ed esserne vivificate; è in essa che è stata deposta la comunione con Cristo, cioè lo Spirito Santo, caparra dell`incorruttibilità (cf. Ef 1,14; 2Cor 1,22), conferma della nostra fede (cf.Col 2,7) e scala della nostra ascensione a Dio (cf. Gen 28,12): infatti, come è detto, “nella Chiesa Dio ha posto gli uni come apostoli gli altri come profeti, ed altri ancora come dottori” (1Cor 1,12) e tutto il resto dell’opera dello Spirito (cf. 1Cor 12,11). Da questo Spirito sono dunque esclusi quanti, rifiutando di accorrere alla Chiesa, si privano da se stessi della vita con le loro false dottrine e le loro azioni riprovevoli. Infatti, là dove è la Chiesa, lí è del pari lo Spirito di Dio; e là dove è lo Spirito di Dio, lí è anche la Chiesa e tutte le grazie. E lo Spirito è Verità (cf. Gv 5,6). (Ireneo di Lione, Adv. haer., 3, 24)
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A cura di Gino Prandina, fraternità dell’Hospitale e AxA Artesacravicenza, sito: artesacravicenza.org
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