Maria per noi oggi

testo di Hans Urs von Balthasar

Nel deserto

1. La donna e il drago. Chi desiderasse sapere qualcosa su Maria e sul suo rapporto con il nostro tempo, farebbe bene ad andarsi a leggere soprattutto il cap. 12 dell’Apocalisse: proprio a! centro di quest’ultimo libro della Bibbia ci viene consentito di penetrare, mediante un’immagine visionaria, nel dramma della storia mondiale. Il «grande segno nel cielo», la «Donna vestita di sole», «con la luna sotto i suoi piedi e coronata da dodici stelle», ma gridando in preda ai dolori del parto, è senza dubbio anzitutto il popolo di Dio, Israele, che soffre i «dolori messianici»: deve partorire qualcosa che è più grande di un qualsiasi figlio umano: come potrà riuscire? E i dolori non sono soltanto interiori: ad essi si accompagna l’immensa angoscia davanti al mostro, al drago rosso di fuoco con le sue sette fauci, spalancate «per inghiottire il bambino subito dopo la sua nascita». Ma al fiore supremo di Israele, alla quintessenza di tutta la sua speranza, vale a dire a Maria, riesce la nascita del bambino che, come dice un salmo, «dovrà reggere i popoli con scettro di ferro», cioè avrà da Dio potenza assoluta sulla creazione. Potenza perfino sulla morte, potenza inoltre sopra il drago divoratore, così che, risorgendo al di là della morte, potrà venir «rapito e innalzato fino al trono di Dio». Questa summadella fede di Israele era un ben distinto essere umano di nome Maria, che generò nel suo corpo il Messia e che convisse soffrendo l’intero suo destino, fino alla crocifissione e fino al trono di Dio. Che cosa è avvenuto di lei?Si legge anzitutto che ella «fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio». Ma prima che si possa sapere altro di lei, ci viene rappresentata una battaglia decisiva nel cielo: dopo il rapimento del Messia in cielo, Michele combatte con i suoi angeli contro il drago e contro le sue schiere. Costoro non reggono. «Il grande drago, il serpente antico, il diavolo e satana che seduce tutta la. terra», viene cacciato fuori dal cielo eterno e precipita sulla terra del tempo. Il cielo si riempie di giubilo, ma alla terra si grida guai!, «perché il diavolo è precipi­tato su di voi, pieno di furore grande, sapendo che poco tempo ormai gli resta». Ora il drago e la donna si trovano di nuovo l’uno davanti all’altra; e il drago non ha altra mira che di «perseguitare» la donna. Ora noi ci troviamo nel tempo dopo Cristo, tempo che nell’Apocalisse viene sempre misurato con eguale misura: «1260 giorni», oppure «42 mesi», oppure, come si dice nel passo citato, «un tempo, due tempi e la metà di un tempo»: ossia un tempo che sembra agli uomini lungo il doppio e che tuttavia (come si legge altrove) «viene raccorciato per amore degli eletti». Questo è precisamente il tempo in cui noi viviamo, in cui vive anche la donna, che era Israele, che divenne Maria, e che alla fine divenne la madre di tutti i fratelli e le sorelle di Gesù. Maria diventa nell’Apocalisse la Chiesa, poiché si legge, subito dopo, che il drago, «infuriato contro la donna» si è dato a «far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e stanno fermi alla testimonianza di Gesù». Il furore del diavolo contro la Chiesa è così grande perché contro di essa non può conseguire nessun successo. «Furono date alla donna le due ali della grande aquila per volare nel deserto», in un luogo dove ella «viene nutrita» per il resto della storia, sicura dal serpente. Questa sicurezza è precaria, poiché «il serpente vomita dalle sue fauci come un fiume d’acqua dietro alla donna per travolgerla». Ma ora «la terra aiuta la donna, aprendo una voragine e inghiottendo il fiume che il drago aveva vomitato dalle sue fauci».

Quale situazione! La donna è in fuga, ma la fuga ha successo, perché le sono state prestate le ali della grande aquila: le ali di Dio, il quale fa come l’aquila con i suoi piccoli, affinché non abbiano paura: se li prende sull’ala e dal nido li porta nel vuoto. Così si era comportato Jahvé con Israele. Ma al piccolo, che viene portato in questo modo nel vuoto, il vuoto sembrerà un perfetto deserto. Ora, precisamente il deserto è il «luogo sicuro», in cui Dio lo trasferisce e dove si curerà del suo nutrimento in maniera mirabile per tutto il tempo della storia, allo stesso modo che Egli aveva nutrito Israele nel deserto. Allora era un deserto geografico che noi oggi potremmo attraversare in breve tempo con un aereo. Ma ciò non è possibile quanto al deserto in cui dovrà abitare la Chiesa prima della fine del tempo. Allora ci fu un esodo in direzione di una terra promessa. Oggi non c’è esodo per la Chiesa tranne quello in direzione del paese promesso al di là della storia: nuovo cielo e nuova terra.

Esistenza nella Chiesa è oggi esistenza tra lo sputo del drago e l’alimento del cielo, un’esistenza mortalmente minacciata e tuttavia protetta nel rifugio preparato da Dio, ma esistenza per tutti i figli della Chiesa in una incessante «milizia» contro le potenze sataniche. La Chiesa non è una grandezza distinta dai suoi figli. Essa vive in loro, come i figli vivono in essa e per mezzo di essa. Perciò il loro destino è il destino di lei: esposti all’ira del serpente e, quando combattono, protetti e nutriti da Dio. «Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli, saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi» (1Pt 5,8s.). «Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. Infatti la nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i dominatori di questo mondo di tenebra» (Ef 6,11s.).

Sono potenze irritate, non indifferenti. In epoca postcristiana si sono sviluppate in una trinità antidivina, come le descrive in dettaglio l’Apocalisse: l’antico dragone si è trasformato nella bestia che sale dalle profondità del mare, una figura dominatrice di dimensioni storico-mondiali. Come tale viene «adorata» e gli viene dato «il potere di portar guerra ai santi e di vincerli». La Chiesa può subire sconfitte, può ve­nir decimata e umiliata, fino all’estrema tribolazione di cui Cristo ha parlato nei vangeli, fino all’accerchiamento della «città diletta», come dice l’Apocalisse. «Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28).

Nella storia della Chiesa non si tratta dunque di una battaglia che si può svolgere a piacere sulla terra; poiché, anche se i suoi figli combattono, essa stessa – e quindi anche la sua «discendenza» – persiste e persevera fino alla fine del tempo nel deserto. Là e soltanto là essa è protetta, portata dalle ali di Dio. Il deserto è la sua terra promessa.

2. Sputo e alimento

Maria, la «Madre Chiesa» e insieme «Madre della Chiesa» – ella può essere tutt’e due le cose, perché ai piedi della croce insieme con il discepolo prediletto diventa modello e cellula originaria della comunità fondata dal Crocifisso e riceve al tempo stesso come suoi figli l’apostolo e, in lui, tutti i cristiani – ha già vissuto in anticipo, nell’oscurità della sua vita terrena, tutto ciò che più tardi i suoi figli avranno di pena e di conforto. Tutto ciò che Paolo richiamerà a gran voce a riguardo del suo destino esemplare – che è stato debole, disprezzato, errabondo, anzi considerato come la spazzatura del mondo, e tuttavia mai abbandonato, mai disperato, mai annientato – lo si può intuire, in suoni assai più riservati, anche nella vita di Maria. Che cosa ella deve aver sofferto quando la sua gravidanza, sulla causa della quale non ha mai pronunciato parola, divenne evidente al pubblico; e di certo non solo a Giuseppe, nella cui casa ella ancora non viveva, ma ad altri, i quali, a differenza di Giuseppe, diedero libero corso alle loro lingue. E che cosa può aver servito, davanti a tutto ciò, il fatto che Giuseppe, illuminato nel sogno, l’ha presa con sé come sposa? Lo scandalo che offuscava lei e quindi anche il suo bambino non veniva per questo cancellato. Neppure Giuseppe poteva presentare spiegazioni tranquillanti. Si dovette lasciare tempo al tempo, e ci si adeguò a ritenere che questo figlio doveva pur essere di Giuseppe. In ogni caso, deve aver pensato qualcuno, quando giunsero i «giorni della purificazione» per la madre, ella doveva avere di sicuro bisogno di quella cerimonia che «la legge di Mosè prescriveva» (Lc 2,22).Non possiamo neppure esclu­dere che anche più tardi, forse fino al tempo del suo soggiorno presso Elisabetta, Maria dovette soffrire sotto l’ombra dei sospetti della gente.

Chiaro è tuttavia che, dopo l’inizio della vita pubblica di Gesù, dovette vivere in stretti rapporti con i suoi parenti, i quali, come riferisce Giovanni evangelista, non credevano a Gesù, tuttavia lo istigavano a compiere miracoli in pubblico, forse per spremerne denaro (Gv 7,3s.). Ma quando il successo di Gesù divenne fin troppo bello per lei e tutti correvano da lui, «i suoi si fecero avanti per andare a prenderlo, poiché dicevano: è matto» (Mc 3,20s.). Maria si trova anche poi tra costoro, più o meno, quando va a cercare Gesù per poterlo vedere. Si riferisce a Gesù che sua madre è là fuori insieme con i suoi parenti e lo invitano ad uscire. Ma lui la lascia fuori dalla porta e consente che se ne torni a casa senza aver ottenuto nulla (Mc 3,31ss.). Bisogna cercare di immaginarsi che cosa deve essere passato per l’anima di Maria: non conto più niente per lui? Non gliene importa più di me? Ella deve sentire una quantità di dicerie, anche deformate, di sicuro non riceve lettere da parte di lui; vive in un deserto di preoccupazioni e di paura. In qual modo lo Spirito Santo, che un giorno l’aveva adombrata, l’abbia nutrita in questa situazione desertica, non lo sappiamo. Forse soprattutto me­diante le prove più terribili: con la notte dei sensi e dello spirito fino alla fede più nuda, la quale la rese alla fine capace di contemplare l’orrore della crocifissione di suo Figlio, e non solo di perderlo in questa circostanza, ma di essere assegnata, con un testamento solenne, come madre ad un altro.

Certamente ella aveva conosciuto le gioie di ogni madre con il suo bambino, prima piccolo e bisognoso di lei, e poi in crescita; centinaia di migliaia di immagini e quadri la raffigurano così, fino al fastidio. Ma chi ci dipinge la povera donna sola che passa i suoi giorni in angoscia e in trepidazione, e che senza dubbio non capisce che cosa avviene in realtà. Ella aveva sentito di una spada che le avrebbe attraversato l’anima. Ma non poteva prevedere di che specie sarebbe stato il suo dolore. Nel momento in cui si verifica una prima catastrofe, in cui il Gesù dodicenne abbandona senza preavviso i suoi genitori e, con un lieve rimprovero, spiega ad essi che l’avrebbero pur dovuto sapere, essi non capiscono di fatto assolutamente niente. Non ci si può neppure immaginare che, una volta di ritorno a Nazareth, egli si sarebbe sentito pure obbligato di fornire loro una piena spiegazione del fatto, per aiutarli in questa loro incomprensione. Niente. Basti sapere che «era ad essi soggetto».

Nei racconti dell’infanzia si dice certamente, e per due volte, che Maria ha custodito meditandolo nel suo cuore tutto ciò che era stato detto del bambino e che il bambino stesso aveva detto. Ma la seconda volta tutto ciò lo si legge nel versetto che segue a quello dove si dice: «Essi non capirono che cosa volesse dire». Dunque ella riflette su che cosa quest’incomprensibile possa significare. Non rifletterebbe se non sapesse che l’essenza e il destino di questo giovane erano ben singolari e che si sarebbero svelati adeguatamente nel futuro. Ma, allo stesso modo che Gesù anticipa il suo destino futuro nello spirito, ma se lo lascia svelare giorno per giorno dal Padre, così anche sua madre deve aver previsto qualcosa dell’avvenire; proprio della sua fede (compimento della fede di Abramo) era l’accettazione continua delle disposizioni divine. Ciò si accorda con la povertà benedetta secondo lo spirito e con la trasparenza del cuore: oggi cuore e spirito vengono svuotati affinché vi possa essere fatto spazio per vedere un giorno Dio e il suo regno. Sarebbe strano che Maria, una volta in cielo, avesse sconfessato la sua esperienza terrena della fede e fosse passata a somministrare rivelazioni prognostiche circa il futuro (conversione della Russia e cose simili).

Il luogo di soggiorno assegnato da Dio alla Donna è il deserto, ed Egli ve la trasferisce sulle sue ali d’aquila. Per tutta la storia del mondo la Chiesa può in tal modo così caratterizzarsi: essa riceve da Dio nutrimento sufficiente per non perire nel deserto, e si trova a distanza sufficientemente lontana dal serpente che la perseguita per non essere spazzata via dal suo sputo. Tutto ciò le deve bastare.

3. I figli della Donna fanno guerra

I figli della Donna si caratterizzano per il fatto che essi «osservano i comandamenti di Dio e conservano la testimonianza di Gesù». I comandamenti di Dio si riassumono in Giovanni e in Paolo nell’unico comandamento dell’amore: resistere nella testimonianza, cioè nell’atteggiamento di una perseveranza paziente a dispetto di qualsiasi aggressione o seduzione. Qui altro non si richiede che la «paziente costanza dei santi che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù» (Ap 14,12).

In nessun luogo del Nuovo Testamento i cristiani fanno guerra con altre armi. Anche l’«armatura di Dio», che Paolo descrive in dettaglio (Ef 6,13‑18) spiega solo in modo più chiaro in che modo i cristiani si difendono: verità, giustizia, disponibilità ad annunziare la buona novella, fede, fiducia della salvezza, spada spirituale della parola di Dio, preghiera costante. Armi tutte «divine», e niente affatto terrestri. Ma l’Apocalisse, come del resto già i Vangeli e la storia di Paolo, mostrano che esse sono le armi unicamente efficaci: «Le armi della nostra milizia non sono carnali, ma potenti in Dio a distruggere fortezze. Noi distruggiamo le macchinazioni e ogni superbia che si è alzata contro la conoscenza di Dio» (2 Cor 10,4ss.). Vengono distrutti «sofismi e cavilli» e non conquistati paesi e civiltà straniere, poi violentemente cristianizzate. Ciò non vuol dire che i cristiani devono starsene quieti a casa loro; essi hanno ricevuto dal Signore l’ordine di uscire ad evangelizzare tutti i paesi del mondo. Ma non con altre armi diverse da quelle usate dal loro Signore e ad essi consegnate. «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro e non abbiate due tuniche ciascuno» (Lc 9,3).Quando il Logos muove verso la battaglia attraverso la storia del mondo, con la sua veste «insanguinata» (Ap 19,11­-16), seguito dai suoi «eletti e fedeli» (ivi 17,14), non lo fa se non mediante le armi già indicate. L’arma più acuta è la spada a due tagli della Paro­la che esce dalla bocca di Dio (Ap 1,16; 19,15) e ciò altro non è che essa stessa: viene infatti nel mondo a «portarvi la spada» (Mt 10,34), che penetra e divide in profondità (Eb 4,12s.): sì oppure no.

Ma attenzione: i figli della Donna combattono; la Donna, benché perseguitata, non combatte. I figli possono essere sopraffatti dal potere maligno (Ap 11,7; 13,7), ma non la Donna, la Chiesa che partorisce verginalmente. Essa è custodita, per tutto il tempo del mondo, nel «rifugio preparato da Dio per lei», dove non ha da lottare per il proprio mantenimento, ma viene da Dio «nutrita». Il potere del drago non può raggiungere questa Chiesa femminile mariana, «le porte del mondo infero non la possono sopraffare». Anche la roccia di Pietro vi è garantita, perciò: «Riponi la tua spada nel fodero». Paolo e Giovanni Paolo II attraversano il mondo senza una spada; basta che essi diano testimonianza, questa è la loro arma più potente, e il successore di Pietro può sempre attingere nuova energia per questa testimonianza in una Chiesa consacrata a Maria.

II.

Generare nel dolore

1. Avvento

L’avvento di Maria, lungo nove mesi, non fu privo di dolore. Giacché, pur preservata dal peccato originale (allo scopo di poter dire il sì perfetto necessario per l’incarnazione del Verbo di Dio), ciò non significa che le siano stati risparmiati i dolori, assegnati alla donna che partorisce, fin dal principio: «Moltiplicherò grandemente le tue sofferenze e quelle della tua gravidanza. Con travaglio partorirai i tuoi figli» (Gen 3,16).

Ciò che Maria ora deve soffrire è espiazione per Eva e per i suoi discendenti. Ella è solidale con la madre originaria proprio perché è senza peccato; essa è poi solidale con il suo popolo Israele, il quale si trova, nella sua totalità, sempre nei dolori del Messia. Ella appartiene al compimento dell’alleanza con il popolo, che rappresenta l’umanità intera; e proprio perché ella appartiene da sempre alla promessa «Nuova Alleanza» (Ger 31,31), è legata nel modo più intimo con l’originaria alleanza con Dio, che Paolo chiama una unica volta l’«Antico Testamento» (2 Cor 3,14).

Non occorre accennare per prima cosa alla penosità della sua gravidanza sempre più evidente; ciò era per l’umile «serva del Signore» di sicuro la preoccupazione minore. Ma lei, debole fanciulla, sarebbe stata all’altezza dell’immensa promessa di portare ai mondo il Figlio dell’Altissimo, come l’angelo l’aveva chiamato?

Questa era stata in qualche modo anche la preoccupazione dei fedelissimi di Israele: in che modo avrebbe potuto uscire da questo popolo, di continuo peccatore e disperso, qualcosa di così puro e indiviso come il Messia della fine dei tempi? Anche se la fantasia poteva rappresentarselo come anzitutto esistente nascosto nel cielo, Israele sarebbe stato pur sempre responsabile del suo arrivo sulla terra.

Ciò che Maria soffre nel suo avvento sono soprattutto dolori spirituali; in ogni gravidanza vissuta in autentica umanità c’è una certa tensione supplice, una passione interiore a riguardo del bambino che deve venire, qualcosa co­me un invisibile dono di grazia, che gli viene consegnato alla sua nascita per la sua vita futura. Una speranza generosa, un affidamento a Dio, oppure, se Dio non si conosce, alle potenze invisibili che guidano il destino degli uomini.

Con quale ansia Maria deve aver pregato per il bambino che cresceva in lei e quanto deve aver meditato sul suo avvenire. Forse possedeva un presentimento circa i dolori che il Messia. avrebbe dovuto sopportare. Non lo sappiamo di certo, ma un qualche destino di superiore potenza doveva attenderlo. Simeone nel tempio glielo confermerà: «Ecco, egli è posto per rovina e la risurrezione di molti in Israele e quale segno di contraddizione». Per nessuna donna la gravidanza passa senza angoscia; per Maria, non senza presentimento della croce. Ella ha al riguardo, come in anticipo, una parte imprecisabile.

Noi non sappiamo se con questi dolori spirituali fossero congiunte sofferenze d’ordine fisico; ma è senz’altro possibile che queste durassero fino a poco prima della nascita, che alla fine dovette compiersi come un miracolo, come l’improvvisa presenza dell’Evento definitivo. In ogni nascita ogni dolore si trasfigura in luce: la notte diventa luce santa (Weih‑Nacht). In che modo il suo grembo si sia aperto e poi richiuso, noi non sappiamo nulla, ed è anche superfluo fare delle speculazioni su un evento che è stato per Dio un gioco infantile, qualcosa di assai meno importante dell’anteriore adombramento mediante lo Spirito Santo. Chi accorda validità a questo primo miracolo – e chiunque è credente deve pur accordarla, altrimenti Gesù dovrebbe avere due padri – non ha bisogno di fare chissà quali acrobazie per riconoscere anche un miracolo secondo, quello della nascita verginale. È davvero stupefacente per gli ebrei il fatto che la vecchia profezia ebraica «Ecco, la fanciulla partorirà» (fanciulla che poté senz’altro già essere chiamata «vergine»: Is 7,14) abbia potuto essere tradotta decisamente con «vergine» in greco. E soltanto così doveva essere, se, a partire dal Figlio verginale, d’ora in poi la fecondità verginale per uomini e donne nella Chiesa doveva diventare una particolare «vocazione» (1 Cor 7).

2. «Figli miei per i quali io soffro ancora i dolori del parto»

Se nella Chiesa la vita di castità, nell’imitazione di Gesù, ma anche di Maria, diviene un dono di grazia, ciò resta oltre ogni dubbio le­gato con i dolori propri di una gravidanza. Si deve trattare di una vocazione, se questa forma di vita deve portare a una nuova e più alta fecondità, e non di forme di zitellaggio o di cameratismo giovanile. Si deve trattare di una rinuncia consapevole e libera della fecondità fisica, la quale comunque è in grado di partorire soltanto della vita mortale, per ottener parte alla fecondità nuova della croce e della resurrezione, che può davvero generare vita immortale. Qui si distingue nel modo più profondo la verginità cristiana dalle ascesi antiesistenziali di altre religioni; si può dire che essa è il loro diretto opposto. Non soltanto in forza della sua fecondità. Anche perché essa è esplicito dono di Dio che on ci si può prendere da sé, ma che si riceve appunto in dono. Certo Paolo vorrebbe che tutti vivessero come lui, ma essendo una vita come la sua non una questione di decisione propria, bensì una elezione (klesis), ognuno deve prendere la vita che gli viene offerta da Dio (1 Cor 7,24).

Paolo, il quale ancora non sa quanto la sua castità ha carattere mariano, la vive in modo assai consapevole come una gravidanza legata a dolori di partoriente da soffrire per i suoi «figli». Egli porta nel suo grembo la comunità della Galazia sull’orlo dello scisma «e patisce un’altra volta i dolori del parto, finché Cristo non prenda forma in voi» (Gal 4,19). Egli sa pure di soffrire di meno per comunità non ancora nate che per comunità già, è vero, fondate, ma non ancora maturate nel grembo apostolico fino in fondo. «Chi patisce scandalo, ed io non ardo di dolore?» (2 Cor 11,29). Questo dolore gli viene addossato da Dio stesso, ed è insopportabile a tal punto che «per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me».

Ma no: «La mia grazia ti basta; la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza» (ivi 12,8s.). Una volta che Paolo l’ha capito, egli si vanta a preferenza della «mia debolezza perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo», perché tutto ciò crea in me lo spazio per l’efficacia di Cristo (ivi 9‑19). Poco gli importa che la comunità lo disistimi; ciò gli consente di prendere su di sé il suo fallimento e di poterli nuovamente generare forti dalla sua impotenza. «Così in noi opera la morte, ma in voi la vita» (ivi 4,12). E la morte the agisce in lui non è una morte neutrale e neppure solo ascetica, ma è unicamente la stessa feconda morte salvifica di Gesù Cristo, che gli comunica la forza di partorire come dal suo grembo per ogni tempo anime che credono e che amano. «Egli fu crocifisso, è vero, per la sua debolezza, ma vive nella potenza di Dio» (ivi 13,4).

Paolo offre soltanto la descrizione dettagliata di questa fecondità che scaturisce dalla vita temperante di Gesù e, attraverso di lui, della madre sua, di Giuseppe, del Battista, del discepolo prediletto e di molti altri cristiani imitativi in questo di Gesù. Si pensi anche soltanto alla grande energia generativa fornita ai grandi fondatori di grandi Ordini, a Benedetto, Francesco, Ignazio: un’energia che non si è ancora esaurita dopo secoli o millenni. È la causa decisiva del perché la Chiesa cattolica, e a modo suo anche la ortodossa, tanto ci tiene ancora, ostinatamente, al celibato del sacerdote. Se questo celibato viene vissuto consapevolmente e con la generosità che si merita, la disponibilità di patire pure «i dolori del parto» per le persone affidate, «finché Cristo non abbia preso forma» in esse, si comprenderà l’origine mariana di questa grazia e potrà spesso essere riconosciuta e quasi toccata con mano «ai suoi frutti».

3. Partorire il cielo

Maria la Vergine ha partorito, partorendo suo Figlio, il tempo finale, poiché ella è la quintessenza di Israele, il quale ha atteso i dolori del Messia come segno dell’arrivo del mondo definitivo. Ma il Figlio, che viene dal Padre e va al Padre (Gr’ 16,28), ci ha aperto la strada verso il cielo: «Io sono la via; io vado a prepararvi un posto» (ivi 14,2.6). Il cielo, che egli ci prepara, non è un luogo fisso e finito; piuttosto bisogna dire che questo luogo si innalza veramente per noi solo con il suo ritorno in cielo, con la sua «ascensione». Essere in cielo significa: «abitare presso il Signore» (2 Cor 5,8). «Ho desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe la cosa migliore» (Fil 1,23).

Vicino al Cristo noi diventiamo anche partecipi del suo essere nel seno del Padre – e il Padre non è, meno ancora, un «luogo» – e questa partecipazione è quanto precisamente ci aspetta come cielo. Certo che il Figlio trasfigurato non è solo nel suo cielo, ma gli innumerevoli, radunati accanto a lui, hanno accesso a questa eternità soltanto attraverso di lui, il primo dei resuscitati, «perché Egli doveva ottenere il primato su tutte le cose, essendo piaciuto a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza» (Col 1,18s.). Questa pienezza è anche la pienezza del cielo; la «celeste Gerusalemme» non è soltanto la sua sposa per l’eternità, ma anche in quanto tale il numero compiuto dei suoi membri, il suo corpo interamente cresciuto.

I cristiani dicono a buon diritto di sperare di «andare in cielo». Tuttavia sanno pure che il cielo in qualche modo anche lo «si merita» o che, in altre parole, si raccoglie «un tesoro nel cielo» (Mt 6,20) e che dunque ci si prepara e ci si mette da parte un posto in cielo con una vita veramente cristiana. Anzi si può allora dire che, alla fine della nostra gravidanza in terra, ci si partorisce ciascuno il suo cielo. Naturalmente non con le forze proprie, ma con la forza della fede in Cristo e con la nostra conformazione a lui. A riflettere su tutto ciò – e non sono idee avventate – allora non ci sembrerà più così strano l’annuncio dell’assunzione corporea di Maria in cielo.

La nostra esistenza è cominciata sulla terra. Siamo stati anzitutto, nascendo, incorporati nella comunità dei peccatori, e solo in seguito, mediante il battesimo o in qualche altra maniera misericordiosa, siamo stati tolti da questa comunità e ricevuti nella comunità dei graziati da Dio per mezzo di Cristo. Invece Maria si trova nel piano di salvezza di Dio in un posto che non ha paragone col nostro: si trova all’interno di questo piano come un membro irrinunciabile alla sua esecuzione: la sua innocenza immacolata è la condizione del fatto che il Verbo di Dio ha potuto farsi carne. Questa non fu anzitutto una questione di carattere genitale fisico. C’è stato bisogno di una perfetta intesa, per così dire di un grembo materno spirituale, perché Dio potesse inserirsi nella comunità umana. Tutta la persona di Maria, indivisibile di anima e corpo, è stata la sede di un simile accoglimento. A partire da questa intelligenza che Maria tutta intera aveva la sua origine nel piano divino di Dio – la Chiesa comprende che Maria poteva essere assunta lassù, dove aveva da sempre il suo posto, unicamente nella stessa citata interezza, ora veramente realizzata. Si può dire di certo che anch’ella si è guadagnata il cielo con i suoi «meriti» terreni, con tutto il suo dolore fino ai piedi della croce, ma ella era fin dal principio così libera, così risoluta, che nella sua gravidanza terrena rivolta al cielo, non avrebbe potuto verificarsi nessun incidente o malformazione generativa.

Noi poveri peccatori la invochiamo per l’ora della nostra morte: ella è «porta del cielo», è assai più di Pietro la «portinaia celeste» che ci rende possibile l’accesso alla presenza di suo Figlio: per Mariam ad Jesum. Ella è l’aiuto di cui abbiamo bisogno affinché la nostra nascita riesca… fino a raggiungere il cielo.

L’Antico Testamento non ha saputo nulla del cielo; il lamento dei Salmi (che nella morte finisce ogni lode di Dio) è terribile abbastanza. I credenti prima di Cristo, pellegrini in cammino verso i «beni promessi», che «vedevano la patria solo da lontano», «non hanno raggiunto i beni promessi» (Eb 11,13s.). Doveva prima risorgere «il Primogenito tra i morti» (Col 1,18), «Cristo come primo dei risorti», «poi (dovevano risorgere) tutti coloro che appartengono a Cristo» (1 Cor 15,23), così che si poté dire al visionario dell’Apocalisse: «Beati i morti che muoiono da ora in poi» (Ap 14,13). Da ora in poi, ,a partire dai dolori della terra, può essere partorito il cielo, e quanto più la storia del mondo nell’imitazione di Cristo cammina verso la croce, tanto più fecondo può diventare un simile parto.

Non è strano che «la nuova Gerusalemme discenda dal cielo da Dio» (Ap 21,2), quando si dovrebbe pur pensare che la Gerusalemme terrestre, come simbolo della città e del regno di Dio in terra, debba alla fine essere innalzata e trasfigurata verso il cielo? Ma «da ora in poi» non esiste più precisamente nessuna Gerusalemme terrestre, dal tempo in cui il Cristo terrestre è diventato celeste, ma pur sempre incarnato. Paolo ce lo spiega con una deviazione: ciò che si chiama sulla terra Gerusalemme «vive con i suoi figli in schiavitù, ma la Gerusalemme di lassù, nostra madre, è libera. Sta appun­to scritto: rallegrati, tu che sei sterile, tu che non partorisci, godi ed esulta, tu che non hai dolori, perché molti figli possiede la solitaria, più di colei che ha marito» (Is 54,1; Gal 4,26s.). La «sterile» è la verginale, ella ha i molti figli; comunque noi la chiamiamo, Maria, oppure Chiesa celeste, oppure «nostra Madre lassù»: ella è ciò mediante cui, e in ordine a cui, noi poveri peccatori possiamo diventare fecondi.

Lascia un commento